I tecnici del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono in queste ore attorno allo stesso tavolo per risolvere un nodo emerso nell’ultima manovra di fine 2018. Al centro della riunione tecnica vi sono i PIR (Piani Individuali di Risparmio), strumenti finanziari appositamente creati per far confluire nuove risorse alle piccole imprese ed alle startup.
I PIR non sono certo una novità, ma l’ultima manovra del Governo Conte ha introdotto una nuova clausola ai requisiti che consentono di avere la piena esenzione fiscale su tali investimenti se mantenuti per 5 anni. Tale clausola è legata alla porzione di investimento da riservare alle startup ed alle PMI quotate sul mercato Aim: la percentuale indicata genera un capitale che il mercato non sarebbe in grado di assorbire, il che – invece di stimolare il flusso di capitali – avrebbe paradossalmente generato un deleterio rallentamento.
La situazione è ben spiegata sulle pagine de Il Giornale da Massimo Doris, amministratore delegato di Banca Mediolanum. Sebbene ci sia pieno accordo con il Governo circa la bontà del principio messo in atto, i conti non tornano. La legge prevede infatti “l’obbligo di investire almeno il 3,5% del patrimonio del fondo in piccole e medie società dell’Aim con determinati requisiti (meno di 250 dipendenti e 50 milioni di fatturato) e un altro 3,5% in fondi di venture capital che investono in piccole imprese“. Tuttavia, semplicemente, ciò non è possibile:
È un conto aritmetico: il patrimonio dei Pir a livello di sistema è di circa 23 miliardi: significa che almeno 800 milioni devono essere investiti in società dell’Aim con i requisiti richiesti dalla nuova norma, altrettanti in fondi di venture capital. Ma sull’Aim non ci sono 800 milioni di flottante sui quali investire con quelle caratteristiche, e men che meno esistono venture capital di quelle dimensioni. Inoltre i fondi di tipo aperto non devono rispettare solo le indicazioni legislative, ma anche le regole di Bankitalia. Ad esempio, i requisiti di liquidità: non possono investire più del 10% in strumenti illiquidi. Ma se con questa legge si pone il limite minimo al 7%, se anche fosse possibile raggiungerlo, significa che in presenza di riscatti, a fronte dei quali vendiamo titoli per forza liquidi, è molto probabile che ci troviamo a sforare i limiti di Bankitalia.
Il problema mette così a rischio tanto lo strumento dei PIR, quanto i flussi di investimento previsti per PMI e startup. Di qui la promessa di MISE e MEF: “L’obiettivo del Governo è incrementare la quota parte dell’investimento a sostegno dell’economia reale. […] Entro febbraio saranno pienamente operativi i PIR come previsto dalla Legge di Bilancio 2019“.
La scelta di usare i PIR come leva per stimolare gli investimenti in startup ha due conseguenze dirette: da una parte determina un flusso di svariati milioni sul mercato startup, favorendo così un ecosistema per il quale da più parti si lamenta da tempo una cronica mancanza di capitali e di investitori; dall’altra il rischio relativo viene spalmato su un alto numero di investitori i quali, ognuno con il proprio piccolo capitale, potrà partecipare con scelte proprie a questa scommessa sull’impresa e sulla creatività italiana.