Pluto Journal – Per Digital Divide si intende alla lettera “divario, divisione digitale”: esso viene inteso come mancanza di accesso e di fruizione alle nuove tecnologie di comunicazione e informatiche. Da qualche anno ormai si parla di questo argomento, che con il passare del tempo riguarda aspetti sempre diversi delle nuove tecnologie e non solo: molti sono gli aspetti anche sociali della questione.
Storicamente, i primi che parlarono di digital divide furono Al Gore e Bill Clinton, quando, all’inizio degli anni novanta, intrapresero una politica di forte sviluppo e potenziamento dell’infrastruttura di internet negli Stati Uniti.
Il concetto di “divario digitale” era riferito alla difficoltà di accesso a internet in determinate zone del paese (difficoltà intesa anche sotto l’aspetto dei costi). In quegli anni internet esplode come fenomeno di massa e diventa sempre di più un mezzo di lavoro e di business: non essere connessi alla rete (o non avere gli strumenti cognitivi per farlo), significa quindi essere relegati ai margini della società. Nascono così vari progetti per colmare il divario digitale americano nell’amministrazione Clinton.
Con il passare del tempo, la “rivoluzione internet” inizia a interessare un po’ tutto il mondo industrializzato e queste tematiche cominciano ad essere sentite anche in altri paesi fino a raggiungere il sud del pianeta. Per inquadrare correttamente il digital divide nei paesi in via di sviluppo dovremmo inserirlo come l’ultimo dei tanti “divide” che riguardano determinate aree: povertà, sfruttamento delle risorse ad opera di multinazionali, mancanza di energia elettrica, problemi politici, mancanza di istruzione, degrado.
Il digital divide si aggiunge a questa parzialissima lista di ritardi e rischia, visto il vorticoso progredire di queste tecnologie, di incrementare ulteriormente la forbice tra paesi sviluppati e non. Sarebbe sicuramente sbagliato credere che andando ad incidere sul digital divide si possano risolvere i problemi gravi che affliggono queste società, così come sarebbe un errore pensare che portando un computer in ogni capanna il problema dell’acqua potabile sia risolto. Sicuramente le nuove tecnologie, se organicamente introdotte, potrebbero, in tempi e modi adeguati, diventare uno strumento di sviluppo e conoscenza.
La tecnologia non dovrebbe servire a creare dei bisogni indotti in questi paesi (computer sempre più potenti, connettività ultraveloce, nuove release di programmi dei quali si sfrutta l’1% delle capacità, etc.), ma a farli sentire partecipi e in grado di creare uno sviluppo tecnico più adeguato alle loro reali esigenze.
Qui iniziamo a toccare un altro punto importante della questione: le tecnologie ICT rappresentano un “paradigma tecnologico”, ovvero un insieme di regole e metodi che determinano un modo di produzione e quindi un modello sociale.
Mai come in questo momento le tecnologie non sono neutre; dal tipo di scelte che vengono fatte si possono decidere i vari tipi di futuri che ci aspettano: sicurezza dei dati, codici dei programmi, sistemi operativi, protocolli applicativi etc etc.
Un paradigma tecnologico non sostenibile può creare molti problemi che – tra l’altro – potrebbero ritornarci indietro amplificati (come ad esempio i problemi ambientali). Nell’ambito dell’informatica e delle nuove tecnologie, il paradigma tecnologico più sostenibile è sicuramente quello legato al free software.
Il modello cooperativo a cui fa riferimento, la possibilità di personalizzare per le diverse esigenze i software e la possibilità di partecipare attivamente all’innovazione entrando nel merito delle cose trattate, sono alcuni dei suoi punti di forza. Se la strada per affrontare il problema sarà questa, allora non saranno soltanto i paesi in via di sviluppo a trarne benefici diretti, ma anche tutta la comunità a livello mondiale.
Un interessante e approfondito documento sul digital divide è disponibile in italiano.
Ambito internazionale governativo e non
In ambito internazionale, negli ultimi anni si stanno elaborando moltissimi progetti su queste tematiche a livello governativo. Le Nazioni Unite, con la dotforce, e molte delle agenzie governative hanno messo nei loro piani come priorità il digital divide (unesco, infodev, worldbank, itu, per citarne solo alcune); l’ Unites è stata creata ad hoc e al G8 di Genova è stato ratificato il Genoa Action Plan sul digital divide prodotto dalla Dot Force: documento fondamentale per capire come i governi del G8 si stiano muovendo su queste tematiche.
Il 10-11 Aprile a Palermo c’è stata una conferenza sullo sviluppo dedicata esclusivamente all’egov e al progetto italiano di metamodello di egovernment da proporre nei paesi in via di sviluppo. Per adesso sono stati scelti 5 partner che accetteranno questo modello in via sperimentale (Nigeria, Tunisia, Giordania, Albania, Mozambico). Per vedere una sintesi dei lavori: www.palermoconference2002.org , nella sezione documenti.
Nel documento della DOTFORCE approvato al G8 di Genova, grazie all’opera di alcune ONG italiane (Alisei, Asal, Movimondo, Cies), al punto a) dell’articolo 8 si fa un chiaro accenno al software open source. Tuttavia, al di là di questo, non si riesce a capire quanto le grandi istituzioni internazionali siano realmente sensibili rispetto a questo tema. Di sicuro le grandi multinazionali informatiche vedono una grande opportunità per risollevarsi dopo la crisi dell’ultimo periodo e per questo difficilmente rinunceranno a far sentire il loro peso sui governi che fanno parte del G8.
In ambito non governativo, molte ONG e Associazioni – soprattutto anglosassoni – si stanno occupando del problema, con attività che vanno dalla alfabetizzazione informatica al reperimento di macchine, dal supporto a grandi progetti di informatizzazione alla creazione di portali specifici dedicati a queste tematiche ( www.unimondo.it , www.apc.org ).
Qui potete trovare una intervista al direttore di Unimondo. In Italia Alisei si sta muovendo su queste tematiche ed ha creato un portale sull’argomento ricco di link e documenti: www.digital-divide.it .
Asal, Movimondo, Cies hanno avviato già alcuni progetti su queste tematiche.
Associazioni come Peacelink , Vita online , La città invisibile , Network per citarne solo alcune, si occupano con attenzione di diversi aspetti della questione digital divide.
Cosa fare?
L’idea è quella di formare una community in grado di discutere problemi generali relativi a queste problematiche, ma anche di dare indicazioni tecniche e lanciare una serie di progetti specifici su queste tematiche. Sul Pluto è stata aperta una mailing list (alla quale chi vuole iscriversi è il benvenuto), pluto-ddivide, che cercherà di fare da collettore di tutto ciò.
Parlare di tipi di applicazioni, di progetti di alfabetizzazione informatica, prendere contatti con associazioni, ONG, centri di eccellenza nei paesi in via di sviluppo per lavorare insieme su progetti che vedano nel software libero un mezzo di diffusione di tecnologie sostenibili potrebbe essere un inizio. La connettività, ma non solo: l’informatica, le applicazioni, la lingua e tanti altri aspetti legati allo sviluppo tecnologico.
Riuscire in qualche modo a dare informazioni specifiche e autorevoli nell’ambito dei database, degli applicativi, del networking, della sicurezza, delle soluzioni server potrebbe essere molto importante per chi ha deciso di affidarsi a questo paradigma tecnologico.
Le ONG che si stanno occupando di questi temi hanno abbastanza chiara la percezione di queste problematiche ma, tranne qualche eccezione, mancano poi di quel supporto tecnico da cui non si può prescindere per tematiche tecniche.
Il problema più difficile a oggi sembra essere quello di far incontrare l’esperienza pluriennale nei progetti di cooperazione delle ONG con l’importante bagaglio tecnico della comunità free software. Se questi due mondi riusciranno ad incontrarsi su dei progetti specifici e a far tesoro reciprocamente l’uno delle esperienze dell’altro, forse si potrà iniziare a vedere un futuro meno cupo per il digital divide, destinato altrimenti a diventare un nuovo e micidiale strumento di colonizzazione.
Giulio Cercani
Articolo tratto dall’ultimo numero di Pluto Journal
L’autore Giulio Carcani ha lavorato con diverse società di informatica come network specialist e sistemista Windows NT fin quando, nel 2000, approda all’Agenzia di protezione Ambientale dove decide di iniziare progressivamente ad abbandonare Win NT per Linux. Ha partecipato a diverse esperienze di lavoro e volontariato nei Balcani (Croazia, Bosnia e Kossovo) anche come informatico. Dal ’98 segue gli sviluppi delle problematiche relative al Digital Divide. Suona il sax alto con la Titubanda e con i “The Bleff Sound Project”.