La storia degli 800 milioni di euro per l’implementazione di infrastrutture di connettività prima messi sul tavolo e poi repentinamente ritirati dal Governo è, sebbene non senza qualche incertezza, ormai nota. La decisione dell’Esecutivo ha – come era naturale – sollevato un vespaio di polemiche, malumori e dissensi ed è stata da più parti duramente contestata tanto da indurre Palazzo Chigi a ritornare, almeno parzialmente, sui propri passi ed a riprendere rapidamente in considerazione l’idea di investire almeno parte dei promessi 800 milioni in banda larga.
Il confronto – tra il fronte del no e quello del sì – si è sin qui svolto su di un piano prettamente politico ed economico e, come tale, ogni valutazione – in un senso e nell’altro – è stata fondata su considerazioni di opportunità, di convenienza e, soprattutto, su giudizi prognostici.
C’è, tuttavia, un profilo – a mio avviso sin qui rimasto sullo sfondo – che credo, al contrario, andrebbe affrontato con serietà ed urgenza: quello giuridico.
Nel dibattito degli ultimi giorni, infatti, il Governo ha sostanzialmente trattato la questione degli investimenti in banda larga quasi quest’ultima fosse una concessione o addirittura un lusso da riconoscere ai cittadini come un tempo accadeva con le grazie regali, e ciò ha consentito che si motivasse la decisione di rinviare l’investimento con l’esigenza di uscire prima dalla crisi.
È un approccio completamente sbagliato e privo di ogni fondamento non già su di un piano politico – non ho competenze per pronunciarmi in tal senso – ma, certamente sotto un profilo giuridico e costituzionale.
Il Codice dell’Amministrazione Digitale nonché un interminabile elenco di leggi, norme e disposizioni introdotte nel nostro ordinamento, in maniera crescente, negli ultimi mesi mirano a rendere, come si dice, quasi fosse uno spot, la nostra Pubblica amministrazione digitale ed a far sì che quest’ultima dialoghi con i cittadini – in via preferenziale e, in taluni casi, addirittura esclusiva – attraverso strumenti informatici e telematici.
Lo stesso Ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta, lo scorso 17 ottobre, illustrando alla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati l’ indagine conoscitiva sullo stato dell’innovazione nella PA ha snocciolato un lungo elenco di progetti che, nei prossimi mesi, dovrebbero, a suo dire, porre le nuove tecnologie al centro dei rapporti tra PA e cittadini: la posta elettronica certificata sarebbe destinata a divenire il mezzo di riferimento per le comunicazioni ai cittadini nonché per la presentazione di istanze alla Pubblica Amministrazione, il progetto “Rete Amica” dovrebbe migrare su tecnologia VoIP, tutte le pubbliche amministrazioni italiane ed i loro indirizzi PEC dovrebbero confluire in un unico indice facilmente navigabile dai cittadini anche attraverso i motori di ricerca e, ancora, i pagamenti alla PA dovrebbero poter esser fatti online così come online dovrebbe svolgersi la più parte dell’attività burocratico-amministrativa connessa al mondo della sanità pubblica.
L’art. 3 del Codice dell’amministrazione digitale, d’altro canto, prevede che “I cittadini e le imprese hanno diritto a richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori di pubblici servizi statali nei limiti di quanto previsto nel presente codice”.
Si tratta, almeno nelle promesse, di un’autentica rivoluzione.
Allo stato, tuttavia, ed in assenza di un’omogenea ed universale diffusione delle risorse di connettività presso l’intera popolazione italiana, l’esito di questa rivoluzione sarebbe incompatibile con la nostra carta costituzionale.
Il Vice Ministro Romani, nella sua audizione presso la Commissione trasporti della Camera dei deputati del 9 giugno ha riferito un dato noto ma, a suo stesso dire, “allarmante: ovvero che il 13% della popolazione – 7,8 milioni di italiani – non ha una connessione a internet o ha una banda insufficiente… ciò significa – ha aggiunto lo stesso Romani – che quasi 8 milioni di persone – meno di un italiano su 8 – non può usufruire dei servizi della società dell’informazione”.
Il Vice Ministro fa discendere da tale dato una conseguenza di carattere politico: ciò “renderebbe vani gli sforzi che gli altri Ministeri – Funzione Pubblica in primis, ma anche Sanità, Istruzione ecc. – stanno facendo per portare la Pubblica Amministrazione online”.
Conclusione corretta, ma c’è di più.
Non si tratta solo di rendere vani gli sforzi degli altri Ministeri quanto piuttosto di rendere illegittime la più parte delle iniziative legislative ed amministrative – assunte e che, nei prossimi mesi, dovessero essere assunte – nella direzione della digitalizzazione dell’azione della PA.
L’art. 3 della nostra Costituzione, infatti, stabilisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il digital divide che affligge il Paese credo possa – in una lettura moderna dell’art. 3 della nostra Costituzione – essere ritenuto un ostacolo che limita la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e che, pertanto, sarebbe compito dello Stato rimuovere.
A leggere così il secondo comma dell’art. 3 ci si avvede che esso contiene – sebbene solo a livello embrionale – il principio, da più parti invocato, secondo il quale le risorse di connettività costituiscono un servizio universale, proprio come il telefono, e devono, pertanto, essere rese accessibili all’intera popolazione anche a condizioni anti-economiche.
Nessuna grazia o concessione né, tantomeno, un lusso: rendere disponibili adeguate risorse di connettività all’intera popolazione italiana è, piuttosto, un vero e proprio obbligo costituzionale dello Stato.
Mi sembra francamente difficile, nel 2009, nel secolo della Rete e nella società dell’informazione, non condividere tale lettura del principio di eguaglianza sancito all’art. 3 della Costituzione. Tuttavia, anche qualora non si volesse qualificare l’indisponibilità di adeguate risorse di connettività come un ostacolo che compete allo Stato rimuovere, occorrerebbe comunque pervenire alla conclusione che, nell’attuale situazione, ogni iniziativa legislativa che dovesse consentire – o addirittura obbligare – i cittadini all’esercizio di qualsivoglia genere di diritto civile o politico “a mezzo Internet” si porrebbe in insanabile contrasto con il primo comma dell’art. 3 e risulterebbe, pertanto, illegittima.
È infatti evidente che riconoscere tali facoltà o addirittura imporre simili obblighi in un contesto nel quale 8 milioni di cittadini non dispongono delle necessarie risorse di connettività significa trattare i cittadini in modo diseguale, dividendoli in due categoria: una di serie A i cui appartenenti hanno un effettivo vantaggio dalla digitalizzazione della PA ed una di serie B i cui appartenenti sono ingiustificatamente discriminati e non possono, incolpevolmente, approfittare dei vantaggi offerti dalla digitalizzazione della PA.
Per tale via si perviene necessariamente ad una conclusione: sino a che l’intera popolazione italiana non sarà posta in condizioni di accedere ad adeguate risorse di connettività non solo non è opportuno continuare ad investire risorse nell’informatizzazione della Pubblica Amministrazione (almeno con riferimento al front-office) ma, procedervi, risulterebbe addirittura illegittimo.
Meno PEC, emoticon e gadgets innovativi, dunque, e più banda larga. Non perché sia più opportuno ma perché è costituzionalmente indispensabile.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it