Il concetto di privacy nello spazio tra terra e mare

Il concetto di privacy nello spazio tra terra e mare

Immaginare la gestione dei dati come un litorale dinamico nel punto di incontro tra terra e mare, cioè tra i Big Tech e gli Stati nazionali.
Il concetto di privacy nello spazio tra terra e mare
Immaginare la gestione dei dati come un litorale dinamico nel punto di incontro tra terra e mare, cioè tra i Big Tech e gli Stati nazionali.

Cosa si può fare, realmente, al cospetto delle Big Tech? Occorre respingerne attivamente l’invadenza, occorre subirne passivamente lo strapotere o occorre cercarne un’integrazione equilibrata che salvaguardi le colonne portanti delle democrazie, della privacy e delle sovranità nazionali? Un approccio possibile è suggerito dalle parole di Ginevra Cerrina Feroni, Vice Presidente del Garante per la Protezione dei Dati Personali:

Di fronte allo strapotere dei big tech, occorre prendere atto della realtà. È un fatto del nostro tempo, ma a ogni fatto deve poter corrispondere un inquadramento normativo.

Realismo, pragmatismo, ma senza alcun passo indietro. Il concetto è quello del “grande spazio” di Schmitt, una contrapposizione tra terra e mare ove la Rete è individuata metaforicamente nel mare, nel suo muoversi anarchico in cerca di spazi nuovi e dove la terra rappresenta gli Stati Nazionali. Il litorale è un movimento ondoso continuo che va ridefinito nel tempo, cercando di contenere il mare laddove pericoloso, ma sapendo di non poter opporre eccessive resistenze quando la pressione si fa più forte.

Il grande spazio tra terra e mare

Oggi la forza è tutta dalla parte delle Big Tech le quali, grazie alla forza dei dati, hanno in mano strumenti previsionali più affidabili e raffinati:

La competizione è giocata, e vinta, in ragione dell’asimmetria informativa a tutto vantaggio dei Big Tech: il patrimonio informativo che essi sono in grado di concentrare attraverso le loro galassie di applicativi, servizi e prodotti digitali determina un divario incolmabile tale da eliminare qualsiasi prospettiva concorrenziale.

Un patrimonio informativo che batte per dettaglio ed aggiornamento addirittura anche quello delle amministrazioni fiscali, sanitarie e statistiche degli Stati, fino al XXI secolo uniche detentrici dei dati del pubblico. Oggi il flusso informativo ha sostituito la banca-dati, il software, sempre più sofisticato ed intelligente, è stato in grado di intercettare dinamicamente variazioni altrimenti impercettibili nelle vite, abitudini, gusti e tendenze e che, a differenza di quanto avviene nei confronti del Governo, gli utenti condividono spontaneamente. E da tutto ciò, soprattutto, è in grado di ricavare previsioni attendibili, in base ad analisi simultanee di profili realistici, potendo costruire virtualmente il modello esatto del tessuto sociale di riferimento.

Di qui nasce l’importanza della sovranità del dato. Gestire la proprietà del dato, infatti, significa agire a monte del potere delle Big Tech togliendo a queste ultime la linfa vitale che ne alimenta le casse. In ballo c’è la sovranità nazionale, ma anche gli equilibri di mercato e quelli geopolitici: attorno ai dati, insomma, c’è gran parte del nostro futuro. Chi ancora riduce il concetto di “privacy” a mera formalità, insomma, ha validi argomenti a disposizione per cambiare idea e porre ben più attenzione su questo fronte caldo sul quale si definiranno le libertà, i diritti e le possibilità delle prossime generazioni.

Il sopravvento del “tecnopolio” per tutto ciò che concerne cybersecurity, cloud computing/storage, CDN (content delivery/distribution network) ed analytics in settori strategici, non è senza conseguenze, anche perché si tratta di settori tradizionalmente appannaggio della sovranità.

Quale natura devono riconoscere allora gli Stati a questi soggetti privati che non agiscono come comuni erogatori di asset e risorse nei riguardi dei Governi, ma quali veri e propri operatori diretti, in grado di contenere, gestire, leggere (usare?) un patrimonio conoscitivo portentoso messo a loro disposizione per necessità dagli Stati stessi.

Considerate le dimensioni di tali entità, nonché la portata delle funzioni che svolgono e la loro permeazione capillare nelle società, i Big Tech sono forse da considerarsi nuovi soggetti del diritto internazionale?

Big Tech: respingere o integrare?

La domanda è lecita, insomma: le Big Tech vanno “integrate” nel diritto, offrendo loro dignità di entità sovrana – pur se limitata – o va ulteriormente respinta questa ipotesi? Bisogna costruire argini contro questo mare, o ne va accolta la risacca sapendo che la si potrà inseguito lasciar defluire? Secondo Ginevra Cerrina Feroni non c’è scelta: “Nei fatti gli Stati debbano scendere a patti con loro, stipulando accordi e convenzioni proprio per servirsi delle loro imprescindibili, insurrogabili attività“. Terra e mare debbono trovare promiscuità, lasciando che il mare invada la terra nella misura stessa in cui la terra possa sporcare il mare.

Come può lo Stato, che da un lato è avvinto in una stretta indissolubile e vitale coi Big Tech – e così rivelando tutta la propria impotenza o inadeguatezza nella dimensione digitale – a rivendicare, dall’altro, la pretesa di veder onorate le prerogative d’imposizione fiscale, repressione del crimine, protezione dei dati, in uno spazio che sfugge irrimediabilmente ai confini fisici della giurisdizione, al principio stesso di territorialità?

Interrogativi fondamentali, insomma, sui quali costruire una nuova geopolitica basata sulla gestione del dato. Ed una riflessione che si chiude con la gratitudine nei confronti della GDPR, pietra angolare di un costrutto fondamentale per tutelare le parti più delicate delle democrazie e della libertà:

Il GDPR europeo è stato un passaggio fondamentale e un caposaldo di regolazione. Dando piena operatività alle clausole ed ai meccanismi di tale strumento, con cui l’Europa ha tentato di reclamare una propria egemonia, quantomeno giuridica sul digitale[13], la debolezza strutturale dei singoli Stati potrebbe in qualche modo venire supplita dal potere dell’Unione nel confronto con e fra Cina e gli Stati Uniti, tanto più necessaria oggi all’alba della disintegrazione del Privacy Shield.

Si riparte da qui, tra terra e mare, su quel confine mai definito (mai definibile) nel quale la contaminazione è giocoforza totalizzante. La stessa definizione di questo confine è una contraddizione nei termini, se non per periodi limitati, se non in ottica di una continua revisione. L’importante è creare paletti e porti sicuri. Ed è questo che occorre fare per potervi rifugiare democrazie, libertà, diritti e quanto di più prezioso possano aver prodotto gli ultimi decenni: lasciando entrare il mare, ma senza che possa portarvi la propria forza incontrollabile.

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Pubblicato il
24 nov 2020
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