Roma – Gentile Redazione, ho 40 anni, un diploma da perito industriale elettrotecnico e lavoro nel settore IT (ora ICT) da parecchi anni. Ho cominciato come “apprendista stregone” per curiosità, poi mi sono appassionato, infine ho trasformato la passione in professione.
Sono stato programmatore, tecnico hardware, sistemista, DBA, amministratore di rete. Ho lavorato da solo ed in team, ho fatto parte di gruppi di lavoro ed ho coordinato gruppi di lavoro. Ho lavorato in una pubblica amministrazione e l’ho abbandonata per tornare nel settore privato. Ho insomma un curriculum abbastanza vario, ed un’età che aiuta a stemperare gli slanci della passione con il bagaglio dell’esperienza, la quale, sia dal punto di vista professionale che da quello umano, comincia ad essere consistente.
Ho attraversato gli anni ’90 e la “bolla” italiana del mercato del lavoro legato all’IT. Un periodo caratterizzato dalla contesa a suon di contratti favolosi delle poche professionalità “vere”, anni in cui non era importante tanto il titolo di studio quanto il saper fare. Una bolla che oggi si è sgonfiata, e le cui conseguenze sono sotto i miei occhi, tutti i giorni.
Oggi, certamente, le competenze in questo settore sono più diffuse, l’acculturamento di base è aumentato, chi opera nel settore non è più uno “stregone” e quanto fino a dieci anni fa era considerato “effetti speciali” oggi passa quasi inosservato. L’adeguamento dei programmi della scuola superiore e delle università ha fatto in modo che neodiplomati e neolaureati non fossero completamente ignoranti in materia e le scuole e le facoltà ad indirizzo tecnico hanno cominciato a sfornare tecnici con una preparazione di base di tutto rispetto, risparmiando ai futuri operatori del settore una gavetta lunga e difficile, quella che ho fatto io, nella quale acquisire sul campo tutte quelle conoscenze che si potevano conseguire o così o sborsando cifre considerevoli.
Il mercato del lavoro delle professioni IT si è perciò trasformato: da un lato si è popolato considerevolmente, anche e soprattutto per effetto di quei contratti favolosi che hanno caratterizzato gli anni ’90, i quali sono diventati un miraggio soprattutto per le nuove leve; questo ha aumentato il numero di candidati disponibili ad occupare ogni posizione lavorativa disponibile, favorendo una concorrenza al ribasso nelle retribuzioni. Le aziende, dal canto loro, già favorite dalla concorrenza fra candidati, hanno adottato concetti suggeriti o insinuati dal marketing commerciale del mondo IT, che si è sperticato per spacciare l’evoluzione dei prodotti (sistemi operativi, suite per l’office automation, DBMS e quant’altro) sempre più nella direzione di una semplicità e intuitività d’uso che permettessero l’impiego di figure sempre meno specializzate.
Capita, così, di leggere delle inserzioni di ricerca di personale per “Sistemista di reti”, in cui le competenze richieste sono: “Conoscenza domini Microsoft, Active Directory, Sistemi Operativi di rete Windows e Linux; Conoscenza networking ed apparati rete Cisco; Conoscenza DBMS Microsoft; Conoscenza dei linguaggi di programmazione C,C++,VisualBasic,PHP e di BizTalk Microsoft.”.
Nessuna indicazione sul livello di esperienza richiesto (almeno in questo caso, in genere inserzioni di questo genere riportano la dicitura “2 o 3 anni”), ed una confusione totale tra le funzioni di Amministratore di dominio Windows, Amministratore di Rete, DBA, Programmatore. Oggi, secondo una tendenza che purtroppo mi pare molto diffusa e accreditata, il cosiddetto “IT Specialist” (ma può chiamarsi in qualsiasi altro modo, tanto competenze richieste e funzioni attribuite non variano poi tanto) deve essere giovane, sapere tutto di ITC, avere poca esperienza e costare poco. Magari appartenere anche alle categorie protette: ecco, se appartiene anche alle categorie protette è perfetto, è il candidato perfetto, il posto è suo.
Del resto, grazie alla possibilità di forfettizzare lo straordinario, l’eventualità di attribuire al neo assunto un carico di lavoro spropositato per il suo livello di esperienza e competenze non è più un problema per l’azienda, che con questa soluzione lo ribalta sul lavoratore. Del resto, con l’enorme quantità di precari che si trova ormai anche in questo settore, se le condizioni di lavoro non sono consone al malcapitato questi può sempre rinunciare, del resto tutti servono e nessuno è indispensabile (una frase mitica che mi è capitato di udire spesso, in azienda), ed una soluzione ad una carenza di personale è una delle minori fonti di preoccupazione per chi gestisce un’azienda.
Come si possano coniugare felicemente tutte queste caratteristiche, bisognerebbe chiederlo a chi si occupa di selezione del personale. Se si ha un po’ di esperienza nel settore, si capisce bene che gli anni di esperienza influiscono in misura direttamente proporzionale sulla conoscenza delle problematiche, sull’affinamento dei metodi, sulle capacità di problem solving, sulla correttezza di analisi e soluzioni proposte. L’esperienza, poi, in genere permette perfino di prevenirli, i problemi. L’esperienza è, insomma, quel valore aggiunto che unito alla competenza consente di ottenere quelle garanzie che dovrebbero stare alla base della business continuity, concetto conosciuto da addetti ai lavori e grandi aziende, ma sconosciuto alla maggior parte delle PMI che costituiscono la stragrande maggioranza delle aziende italiane.
Amministrare un sistema informativo di una media azienda, purtroppo per il marketing dei prodotti ITC, non è cosa semplice, anzi. L’esperienza è necessaria, e più il sistema informativo è complesso, più esperienza servirebbe per gestirlo in maniera ottimale. A volte mi viene il sospetto che si faccia troppa confusione sulla differenza che corre, da questo punto di vista, tra amministrare un sistema informativo e farlo funzionare. Qualche volta il sospetto è perfino che la confusione non sia confusione, ma malafede.
Ma chi gestisce una azienda, e chi seleziona e/o gestisce il personale dell’azienda, si rende conto che il prodotto finale, sia esso un bene o un servizio, è il risultato di tutte le componenti del processo produttivo? E di conseguenza, laddove esistono punti deboli (come, nel caso specifico, la mancanza di esperienze e/o competenze adeguate ai ruoli ed alle funzioni), più grandi sono le probabilità di fornire beni e/o servizi di qualità inferiore a quanto richiederebbe il mercato? Mi pare che stimolare o avallare processi di questo tipo, con l’impiego di professionalità al ribasso, possa portarci a vendere sempre più fumo e sempre meno arrosto.
Non svilupperò oltre questo pensiero, non sono un sociologo e tantomeno un economista. Sono un lavoratore che ogni giorno di più vede affievolirsi la possibilità di veder riconosciuta una dignità al proprio lavoro (per malafede, per ignoranza o tutte e due), a causa di decisioni e politiche aziendali miopi d’una miopia grave. Del resto, se mai si è ragionato sulla risorsa uomo, oggigiorno ci si è messi in concorrenza con Cina ed India, per cui l’esperienza non è più monetizzabile, altrimenti l’azienda andrebbe fuori mercato. Però, sia chiaro, poiché oggi avere un lavoro è una fortuna, io e tutti quelli che, come me, vorrebbero tentare altre sfide ma non trovano migliori occasioni a causa di quanto ho provato a riassumere più sopra, ecco, io sono un fortunato e non dovrei lamentarmi.
Difatti, non mi lamento. Cerco di capire piuttosto. Ma ho le mie brave difficoltà.
Buon lavoro a tutti (mi pare proprio un augurio azzeccato).
Danilo C.