La controversa storia è ormai nota. Con l’aggiornamento firmware 3.21 di PlayStation 3, rilasciato nel marzo del 2010, Sony Computer Entertainment ha volutamente eliminato l’opzione per l’installazione di un sistema operativo alternativo a quello proprietario. Il colosso nipponico ha sempre dichiarato che il supporto a Linux è stato rimosso per “motivi di sicurezza” ma gli amareggiati fan del Pinguino hanno comunque intrapreso un’azione di gruppo.
In tutti questi mesi la class action si è sempre appellata ai diritti dei consumatori, ricordando che un prodotto deve “essere adatto allo scopo che il consumatore prevedeva al momento dell’acquisto”. L’update con il firmware sfratta-Linux era opzionale ma è pur vero che per evitarlo bisognava continuare ad utilizzare la PS3 solamente offline, senza più accedere al PlayStation Network e senza mai giocare ai nuovi videogame che pretendono aggiornamenti di sistema.
Sony, dal canto suo, ha sempre replicato che la macchina deve avere tutte le funzioni con cui è stata venduta soltanto per la durata della garanzia. Passato questo primo periodo il costruttore può liberamente modificare le sue funzionalità, come da EULA .
Il giudice federale Richard Seeborg ha recentemente respinto tutte le accuse, dichiarando che l’azienda non è assolutamente venuta meno agli obblighi contrattuali verso i suoi clienti. In verità, la domanda è stata bocciata perché i querelanti “hanno formulato le accuse nel modo sbagliato, omettendo fatti”. La class action non sarebbe insomma riuscita ad articolare una teoria convincente riguardante il passo indietro e le responsabilità prettamente legali di Sony.
Roberto Pulito