The Pirate Bay condannata per violazione del diritto d’autore. La notizia, in questi termini, fa meno effetto di quanto dovrebbe.
Proviamo, quindi, a fare un esercizio lessicale ed a riformulare il titolo della notizia: un motore di ricerca svedese condannato per violazione del diritto d’autore . L’occhiello potrebbe recitare: secondo i giudici, i gestori del motore sapevano che i contenuti indicizzati erano costituiti anche (o se preferite, prevalentemente) da materiale protetto da diritto d’autore ma hanno omesso di agire per impedire che ciò avvenisse .
Ora ci siamo. È questa la notizia ed è questo il fatto dirompente nascosto – ma non troppo – tra le righe della decisione del Tribunale di Stoccolma. Letta così la notizia, la sentenza con la quale i giudici svedesi hanno condannato Fredrik Neij, 30 anni, Gottfrid Svartholm, 24 anni, Peter Sunde, 30 anni, il fondatore di Pirate Bay, e Carl Lundström, 48 anni ad un anno di reclusione ed al pagamento alle major dell’audiovisivo di un risarcimento di oltre 2 milioni di euro acquisisce un significato ed una portata completamente diversi.
Due, a mio avviso, le possibili chiavi di lettura, e nessuna delle due è confortante: o si Ë pervenuti alla decisione attraverso un processo emotivo e politico guidato dalla volontà di perseguire i “pirati” – se si fosse trattato della baia degli angeli sarebbe, forse, finita diversamente – e di far giustizia secondo la filosofia delle major o, piuttosto, si è coscientemente deciso di travolgere il principio della non responsabilità degli intermediari della comunicazione sul quale è invece fondata la vigente disciplina europea sul commercio elettronico e, più in generale, la dinamica della circolazione dei contenuti nello spazio telematico.
Mettiamo da parte, per un attimo, la prima delle due ipotesi perché se fosse questa la chiave di lettura corretta ci sarebbe solo da augurarsi che i prossimi giudici – con ogni probabilità quelli italiani – che saranno chiamati a pronunciarsi su analoga fattispecie, si lascino guidare meno da emotività e politica e più dal diritto e dalla logica giuridica.
Veniamo alla seconda.
The Pirate Bay è un motore di ricerca ed un motore di ricerca è un mero intermediario della comunicazione che procede automaticamente alla indicizzazione di milioni e milioni di informazioni diffuse nello spazio telematico ed ospitate su computer appartenenti a milioni di utenti.
L’ art.15 della Direttiva n. 31 dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici del commercio elettronico sotto la rubrica “assenza dell’obbligo generale di sorveglianza” stabilisce che gli Stati membri non devono imporre agli intermediari della comunicazione ” un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite ” ed aggiunge che i singoli Stati possono, invece ” stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati “.
The Pirate Bay è un intermediario della comunicazione, gli intermediari della comunicazione sono tenuti, a tutto voler concedere – ove previsto nella disciplina nazionale di riferimento – ad informare le autorità competenti di eventuali attività illecite poste in essere dai propri utenti. Dunque The Pirate Bay non può ritenersi obbligato addirittura ad astenersi dal procedere all’indicizzazione di milioni di file torrent come, invece, sembrano aver ritenuto i Giudici svedesi che, nel pervenire ad un giudizio di colpevolezza dei gestori della Baia, hanno evidentemente loro attribuito un ruolo almeno di compartecipi nella commissione dell’illecito consistente nell’aver posto a disposizione del pubblico contenuti protetti da diritto d’autore. È questa, d’altra parte, l’ipotesi di reato contestata a alla Baia dei pirati anche dalla Procura della Repubblica di Bergamo.
È, dunque, un semplice sillogismo quello che solleva almeno qualche perplessità sulla decisione del Tribunale di Stoccolma.
La circostanza che i gestori di Pirate Bay – ammesso anche che ciò sia stato dimostrato – abbiano tratto un profitto dalla propria attività non consente – almeno a guardare alla vicenda con occhi scevri da preconcetti ideologici – di interrompere la serie di nessi logici sui quali riposa tale sillogismo. La disciplina europea, infatti, non subordina l’applicabilità delle disposizioni in materia di “non responsabilità” degli intermediari della comunicazione alla circostanza che questi ultimi non perseguano obiettivi di profitto ma, al contrario, tali obiettivi devono darsi per certi trattandosi, generalmente, di imprenditori che operano nel mercato.
Non sono in grado di giudicare – non avendola, tra l’altro, letta integralmente – se la decisione del tribunale di Stoccolma sia corretta o meno alla stregua del diritto svedese e, a ben vedere, non credo neppure che l’attività posta in essere dagli utenti che popolano la Baia vada esente da ogni genere di censura. Ma mi sembra importante estrarre dalla Sentenza – la prima, a mia memoria, nella quale si ritiene responsabile un motore di ricerca per l’illiceità del contenuto indicizzato – il principio di diritto che essa contiene: se un motore di ricerca trae profitto dall’attività di indicizzazione di contenuti degli utenti avendo conoscenza del carattere non autorizzato della circolazione di tali contenuti i gestori ne rispondono sia in sede civile che penale.
È un principio che non riesco a condividere per due ragioni: la prima è che la sua puntuale applicazione condurrebbe ad una progressiva – ma rapida – integrale implosione dell’infrastruttura della Rete e delle dinamiche della circolazione dei contenuti in Rete e la seconda è che l’esigenza di imputare una responsabilit? di tipo para-oggettivo al motore di ricerca nasce esclusivamente dalla difficolt? operativa (ma non giuridica) e dall’onerosità di seguire la strada maestra della tutela dei diritti d’autore perseguendo i responsabili delle violazioni. È una scorciatoia che non mi piace e che finisce con il riaddebitare sulla collettività il costo e la responsabilità della condotta illecita di taluni suoi membri. È un dato incontrovertibile che il torrent tracker della Baia costituisca uno strumento tecnico utilizzato anche per la commissione di un reato ma non più e non meno di quanto l’infrastruttura di comunicazione o piuttosto le macchine attraverso le quali quei contenuti vengono ospitati e fatti circolare.
Dove conduce, dunque, la deriva partita dalla Baia dei Pirati?
A trasformare gli ISP in sceriffi come vorrebbero in Francia e qualcuno anche nel nostro Paese? A criminalizzare il ruolo degli intermediari della comunicazione in un contesto quale quello telematico in cui non c’è condotta che non sia posta in essere attraverso l’intermediazione di uno o più soggetti diversi dal suo autore? Credo ci si debba porre queste domande prima che sia troppo tardi.
La Rete è già passata per soluzioni che apparivano giustificate in relazione a fenomeni che destavano grande allarme sociale: basti pensare alle black list antipedopornografia o alle inibitorie all’accesso ad interi siti in materia di repressione del gioco d’azzardo online.
All’epoca dell’adozione di queste misure straordinarie nessuno ritenne di sollevare eccezioni perché a tutti era chiaro chi fossero i buoni e chi i cattivi e tutti eravamo convinti – come credo lo siamo – che i cattivi andassero emarginati e fermati ai confini della Rete.
Tali misure hanno, probabilmente, contribuito a rendere la “nostra Rete” più sicura ma, ad un tempo, hanno persuaso qualcuno che sia legittimo generalizzarne l’applicazione a decine e decine di altre condotte poste in essere online come, ad esempio, i reati di opinione contro i quali il Senatore D’Alia ha di recente proposto di adottare analoghe misure di filtraggio.
Credo valga la stessa regola per la responsabilità che il tribunale di Stoccolma ha ritenuto di attribuire in capo ai gestori della Baia e che i giudici italiani minacciano di volerle attribuire. Ritenere responsabile The Pirate Bay per aver contribuito a gravi e reiterate violazioni del diritto d’autore può suscitare approvazione o disapprovazione a seconda dei punti di vista ma il rischio è che, domani, si provi a configurare analoga responsabilità in capo ad un motore di ricerca che indicizzi prevalentemente contenuti contrari a questo o quel regime politico magari sotto la più romantica bandiera di “The Freedom Bay”.
Si può – e probabilmente al punto cui si è giunti – si deve discutere dell’esigenza di individuare un nuovo quadro normativo in grado di tracciare nuove linee di equilibrio tra le libere utilizzazioni dei diritti patrimoniali d’autore ed il rispetto dei diritti medesimi. Ma sin tanto che a tale operazione non si sarà proceduto non credo sia lecito né auspicabile che giudici e governi si sovrappongano al legislatore nell’adottare – sulla base di logiche di emergenza o in occasione di fattispecie che rappresentano la patologia del fenomeno telematico ma non certo la regola – provvedimenti la cui diffusa applicazione rischierebbe di scrivere il futuro di Internet in maniera assai diversa da quanto appare lecito sperare.
Che i pirati, se colpevoli, paghino. Ma viva le Baie, quale che sia la bandiera che su di esse sventola!
Guido Scorza
www.guidoscorza.it