Questa settimana l’attenzione di molti si è concentrata sulla direttiva in fase di studio da parte della Commissione Europea, volta ad inasprire le pene per i “reati contro la proprietà intellettuale”. Fin dai tempi antichi, la maggioranza del lavoro creativo è sempre stato egregiamente supportato da fonti ben diverse dai diritti di copyright: esibizioni, tournée, insegnamento, stipendi… e l’arte, onestamente, se l’è cavata piuttosto bene. Il diritto d’autore, infatti, è un invenzione abbastanza moderna (risale al 1700), e la sua storia non è nemmeno del tutto pulita. Karl Foegel, autore di un paio di volumi sull’argomento, dipinge in modo brillante quest’evoluzione in un suo breve saggio di circa un anno fa, intitolato ” The promise of a post-copyright world “, tradotto anche in italiano. Dal quale si intuisce chiaramente come chi trae il maggiore beneficio dai diritti di copyright siano in realtà gli editori e le case discografiche, e solo raramente il creativo .
Ma guardare alle “multinazionali dell’ingegno” come a dei mostri onnivori è probabilmente comunque un errore. Le Major odierne sono qualcosa di diverso dalle corporazioni censorie del sedicesimo secolo in cui il copyright è nato. Sono grandi aziende, talvolta vittime dell’ingessatura tipica dei colossi economici, amministrate da imprenditori più o meno capaci, ed interessate a fare profitto grazie alle opere d’ingegno dei propri dipendenti stipendiati (musicisti, sviluppatori, scrittori…). Se questo sia eticamente un bene o un male è un altro conto, ma la differenza con migliaia di altre industrie che operano in settori diversi, non è tantissima.
Di queste ed altre questioni ne parliamo con Claudio Ferrante , direttore generale e talent scout della Carosello Record , una delle prime case discografiche italiane dopo le major (con a catalogo dischi di Vasco Rossi, Mina, Gaber, Modugno, Morricone, Anggun, Max De Angelis e via dicendo).
Punto Informatico: La prima domanda è difficile: qual è lo stato della discografia italiana?
Claudio Ferrante: Purtroppo non versa in uno stato ottimale, direi che la situazione è abbastanza preoccupante. Poi sono sicuro che la musica ce la farà anche stavolta, si pensi alla crisi che nell’83 colpì il nostro settore. Era un periodo di stallo tra il vinile e l’ingresso della nuova tecnologia digitale Compact Disc. La discografia dopo un anno e mezzo si risollevò e si tornò a vendere tantissimo. Ora c’è un altro stallo, tra il CD e il “file” canzone.
PI: File canzone che, sempre più, si trova a viaggiare più o meno legalmente nella Rete. Una casa discografica come interpreta l’avvento di Internet?
CF: Senz’altro come una grande opportunità, anche se, come tutte le opportunità, dev’essere sapientemente gestita. Si pensi ai vantaggi di poter contare su un altro “media” come YouTube o Google Tv, alla possibilità di generare interesse senza passare per la radio o la Tv tradizionale, che a mio avviso sono ormai mezzi inflazionatissimi e non più direttamente correlati alla vendita o al successo degli artisti. Certo ne consolidano la popolarità, ma la radio oggi è sempre di più usata per riempire un vuoto di silenzio in auto, o in casa. I ragazzi non sono interessati alla Tv e non ascoltano radio, bensì i podcast o le proprie compilation che realizzano “homemade” scaricando i brani dalla Rete. Magari se scaricassero pagando avremmo risolto il problema.
PI: Voi della Carosello come gestite il mercato online?
CF: Abbiamo costituito un centro che si chiama Creative Lab, grafica, multimediale e digital delivery che si intersecano al fine di ricercare nuove opportunità di business con il digitale e il multimediale. Vero è che il mercato digitale stenta a decollare, anzi, non è decollato per niente.
PI: Tornando al “file canzone”, il futuro della musica è soltanto nei singoli, nei brani? È davvero morto il CD come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi?
CF: L’album (e quindi il CD) ha senz’altro perso di appeal, e questo è un peccato. Si pensi a The Dark side of the moon in cui lo stesso Alan Parsons realizzò un concept album contribuendo alla modernizzazione del rock tradizionale in un rock definito “sinfonico”. Senza il concetto d’insieme espresso in un intero album quel progetto non avrebbe mai visto la luce: sarebbe mancata una delle pietre miliari della musica contemporanea. Oggi telefonia e internet si concentrano sull’uso e consumo delle track singole: “mi piace quella canzone, la uso come suoneria o me la scarico”. La stragrande maggioranza del pubblico non pensa più all’intero album.
PI: Molti album girano attorno a pochi pezzi di valore
CF: Un po’ l’errore della discografia degli ultimi anni – e non solo a livello italiano, ma a anche livello internazionale – è stato quello di curare poco l’aspetto artistico delle produzioni: magari uno o due singoli, ed il resto un riempitivo. La gente ha perso fiducia nell’album e “nell’oggetto CD” perché non stima più l’industria discografica.
PI: Una mancanza di stima che sfocia nelle forti polemiche che non accennano a spegnersi sulle politiche delle major contro la pirateria. Cosa pensa delle voci di quei migliaia di giovani che vedono le major come dei colossi finanziari interessati al solo profitto?
CF: Sì, non accennano a spegnersi perché il problema della pirateria è un problema serio. E se la Rete insegna che tutto dovrebbe essere disponibile, gratuitamente, in barba ai detentori del copyright… È una questione culturale: poca consapevolezza del valore della proprietà di un copyright, di una registrazione, degli investimenti necessari a sviluppare un artista.
PI: E le multinazionali?
CF: Le multinazionali hanno fatto molti errori, ma la pirateria su internet è un gigantesco oceano che ha severamente danneggiato l’industria tutta. Aggiungiamo che le multinazionali non sono simpatiche al pubblico… Forse gli indipendenti sono solo un po’ più simpatici, ma credo che il settore tutto non goda di una buona reputazione. La gente considera i discografici degli aguzzini che sfruttano gli artisti traendone profitto, tanto profitto, illimitato profitto.
PI: E non è così?
CF: Le multinazionali oggi hanno la priorità del fatturato e dei risultati economici: le politiche sono cambiate. Ma quando entrano nel mercato dell’entertainment e della musica i fondi d’investimento, le cordate di banche e severi azionisti che guardano ogni giorno quanto ha perso o guadagnato il titolo, è ovvio che cambino le politiche. E i giovani protestano “vendicandosi” con il P2P. Ecco, da questo punto di vista gli indipendenti sono gli unici rimasti a rischiare davvero di tasca propria.
PI: Il file sharing quindi…
CF: Penso che sia un problema culturale, come ho già accennato prima. Perché andare a comprare un disco in negozio o su ITunes quando lo scarico gratis da Emule?
PI: A proposito dei servizi peer-to-peer, come giudica l’intento della Commissione Europea di inasprire le sanzioni penali per i reati contro la proprietà intellettuale e la pirateria?
CF: C’è un serio problema su quel fronte, rappresentato dal recente tentativo di qualche parlamentare europeo di far passare come punibile soltanto quell’utilizzo dei file che, condivisi magri all’interno di una ristretta cerchia di amici, farebbero scaturire un vantaggio di natura economica o commerciale ad un utente. Assurdo. Va punito a mio avviso il semplice concetto di scaricare illegalmente file: anche per uso personale.
PI: Colpa anche della politica, quindi?
CF: Purtroppo la musica nelle alte sfere istituzionali è mal percepita, qualche politico si permette perfino di incitare i ragazzi delle Università a scaricare gratis la musica. Gli stessi politici che chiamano poi gli artisti a suonare (gratis) alle feste del proprio partito. Semplicemente vergognoso. Si continua a mitragliare sul corpo agonizzante delle case discografiche per ottenere uno spicciolo di consenso in più.
PI: La sua è una casa discografica di medie dimensioni: è vero che le major affidano sempre più la produzione discografica alle piccole etichette per poi gestire quegli aspetti che solo una grande azienda può svolgere, tipo la promozione e la distribuzione?
CF: Sì è vero. Le piccole indipendenti rappresentano una risorsa notevole per il talent scouting e per un lavoro attento constante e serio su un progetto. Prendiamo Alberto Salerno e Mara Majonchi che hanno scoperto Tiziano Ferro. Ecco, lui è l’ultimo esempio di un artista “allevato” da un’azienda a conduzione familiare come la Nisa, diventato poi un artista di livello internazionale grazie anche al marketing e al lavoro di EMI.
PI: Un lavoro impegnativo?
CF: È un lavoro lungo di ricerca, di attenzione nei confronti di artisti sconosciuti che vanno fatti crescere proprio come piccole piante. Oggi lanciare con successo un artista è un’impresa titanica, è necessaria pazienza e passione oltre che risorse economiche. Ho la fortuna di lavorare per una famiglia di imprenditori che da oltre cento anni crede nelle canzoni. E ha sempre investito di tasca propria, senza aiuti di banche o multinazionali.
A cura di Luca Spinelli