È noto per essere da anni impegnato attivamente contro la commercializzazione dei videogame violenti, e ora Jack Thompson se la prende con Facebook per la (presunta) disattenzione del suo management nei confronti di gruppi organizzati tesi a propagandare l’odio nei suoi confronti. Thompson, che è stato recentemente radiato dall’avvocatura della Florida per una faccenda legata alla presentazione di prove false in tribunale, pretenderebbe da Facebook il pagamento di 40 milioni di dollari.
Da persecutore pubblicamente esposto dei giochi con sovrabbondanza di pixel color rosso porpora, Thomposon è in effetti da tempo abituato a ricevere ogni genere di minaccia e avvertimento: a un certo punto della sua parabola, un ragazzino è finito in prigione per aver chiamato l’avvocato a casa promettendo di farlo fuori e colpirlo nella sua virilità (non necessariamente in quest’ordine, pare).
La querelle con Facebook comincia lo scorso mese, quando l’ormai ex-avvocato si accorge dell’esistenza di gruppi sul portale inneggianti alla sua “rimozione dalla popolazione”, o all’incontro ravvicinato e presumibilmente violento della sua faccia con una console modello Atari 2600. A una tale dimostrazione di odio Thompson ha risposto prontamente contattando, via fax, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg e chiedendo l’immediata rimozione dei contenuti incriminati .
Ma dal management di Facebook non è arrivata nessuna risposta, ragion per cui il 29 settembre l’uomo ha deciso di portare la questione in tribunale citando la “volontaria e deliberata noncuranza” di Facebook “dei diritti e della sicurezza dell’accusa”, chiedendo la concessione di una mega-multa punitiva e in compensazione dello stress subito a causa delle minacce telematiche.
Facebook ha però risposto per le rime, sostenendo che la causa è “priva di merito” e ribadendo la policy della società di rimuovere i contenuti degli utenti una volta che ne venga marcata la natura offensiva con l’apposito sistema di segnalazione presente sulla piattaforma.
Secondo l’autorevole opinione di Eric Goldman, professore associato di legge presso la Santa Clara University School of Law e direttore dell’ High Tech Law Institute , Thompson non ha in realtà nessuna speranza di spuntarla contro Facebook in virtù delle norme contenute nel Telecommunications Act del 1996, in cui si stabilisce nero su bianco che un sito web non può essere considerato responsabile per i contenuti postati dagli utenti.
“Non importa che Facebook riceva notizia di un problema e non agisca di conseguenza o che Facebook abbia agito in situazioni simili e non lo abbia fatto ora”, dice Goldman. “Indipendentemente da tutti questi fatti” continua il professore, il Telecom Act “stabilisce categoricamente che Facebook non è responsabile”.
Alfonso Maruccia