IL CSR o Corporate Social Responsibility non ha un’unica definizione. Quella che a me piace, presa da Wikipedia, è: “Esso è l’impegno del Business di contribuire a sostenere lo sviluppo economico lavorando con gli impiegati, le loro famiglie e la comunità locale e la società tutta per migliorare le loro vite in modo che anche essi contribuiscano al Business ed allo sviluppo”.
È insomma una specie di volano: io azienda, mi auto-regolamento con una serie di regole etiche e contribuisco al miglioramento della vita dei miei impiegati e della società tutta, e loro (gli impiegati) lavorano meglio, contribuendo a migliorare il mio Business.
Non è affatto chiaro se il CSR può essere un modo di fare Business, anzi vi è chi è assolutamente contrario a questo modello. Per molti il CSR non è altro che uno specchietto per le allodole creato ad hoc per attirare capitali che non investirebbero mai in un’azienda che non si impegnasse, almeno sulla carta, a rispettare qualche principio di CSR.
Ad esempio una delle norme etiche che un’azienda che voglia fare CSR potrebbe darsi è quella di riconoscere la meritocrazia e di promuovere lo sviluppo e la carriera delle persone.
Ma cosa significa meritocrazia e sviluppo delle persone in una realtà aziendale come quella italiana? Soldi, solamente soldi, soldi guadagnati o soldi risparmiati, scegliete voi, l’importante è che la cifra sia considerevole.
Quando ero solo un giovane analista ed il Team di lavoro (se così si può chiamare) era composto da me e dal mio capo, ci ponemmo proprio questa domanda: come era possibile avere più soldi e maggiore visibilità in azienda?
La risposta fu: portando più lavoro alla stessa.
Ma come facciamo a portare questo lavoro e a fornire al cliente un servizio con la stessa qualità con cui lo facciamo noi, se l’azienda non ci da né persone formate, né mezzi per formarle?
Anche qui la risposta era semplice, dovevamo formarle da sole le persone e nel frattempo sopperire a tutta la loro inesperienza.
Fissato l’obiettivo, iniziammo a lavorarci ed il lavoro fatto fu davvero encomiabile: in pochi anni il gruppo di lavoro crebbe, passando da 2 a 4 e poi ad 8 ed infine a 12 persone.
Bene, avevamo ottenuto il nostro obiettivo, potevamo ricevere la nostra lauta ricompensa, ed, infatti, ricevetti come Bonus annuale una tantum 100 mila lire lorde !
Al mio capo non andò meglio. Successe cosi che nel giro di 15 giorni demmo le dimissioni, io, il mio capo e perfino il capo del mio capo!
A quel punto il responsabile della produzione mi contattò e mi fece una contro-offerta pazzesca per rimanere.
Che cosa era successo? Semplicemente che l’azienda si era fatta due calcoli ed aveva visto che darmi un aumento significativo (ma molto significativo) era comunque più conveniente che perdere un progetto con 12 persone (questo perché il cliente aveva posto come clausola o me o niente progetto).
La morale di questa favola è che se esiste un CSR in un’azienda, in realtà funziona al contrario: la norma è più o meno scritta cosi:”Mi impegno per far sì che esista un ambiente in cui posso pagare il meno possibile il lavoro IT, ma non troppo poco perché se se ne vanno via tutti mi causano un grosso danno”.
La filosofia è molto semplice: in tanto mi posso permettere di pagare poco la professionalità, in quanto, anche se qualcuno andasse via, potrei sempre sostituirlo con un altro.
Certo, si potrebbe anche fare leva sul senso etico del cliente che si avvale di ditte che usano precari o peggio ma, credetemi, se una ditta accetta di pagare per una risorsa meno di 200-300 euro al giorno, sa che dall’altra parte stanno commettendo uno sfruttamento.
E fino a quando questo non gli comporterà un danno gli andrà bene così.
Le persone che lavorano nell’IT sono circa un milione, 600.000 direttamente, 400.000 in aziende di servizi (dati riferiti al 2003), ma fino a quando si accetterà lo stato attuale delle cose, poco o nulla potrà cambiare.
Insomma, per capirci, il reparto IT non è mica come i tassisti od i camionisti.
La risposta a quanto valgo io adesso per la mia azienda è la stessa che dareste alla domanda: ma se io adesso andassi via senza preavviso che danno soffrirebbe la ditta?
Questo discorso ovviamente vale per l’IT come per qualsiasi altro reparto, ma un po’ di più nell’IT perché ora come ora senza IT non è possibile pensare a nessun Business basato sui servizi.
Ovviamente non è certo con una presa di posizione individuale che si può pensare che si possano cambiare le cose. Nessuno è indispensabile e tutti siamo necessari, ma cosa succederebbe se questo fosse un moto comune?
Avete mai notato che uno dei versi di Fratelli D’Italia dice: “Noi siamo da secoli calpesti, derisi, Perché non siam popolo, Perché siam divisi. raccolgaci un’unica Bandiera, una speme: Di fonderci insieme Già l’ora suonò”.
Non è mia intenzione azzardare nessun confronto con i nostri eroi del Risorgimento, ma è comunque curioso che l’esser divisi, non avere un unico riferimento, qualcosa che unisca, siano le stesse problematiche di 160 anni fa, quando il maestro Mameli compose l’inno, (sostituite Popolo e Bandiera e con cosa volete ed avrete la situazione attuale).
E se penso che chi fa IT all’estero vive situazioni completamente diverse, comincio a pensare che l’attuale situazione italiana in cui riversa il mondo del lavoro e dell’IT non sia altro che lo specchio della nostra società, una società che come si augura Mameli aspetta ancora la sua Bandiera.
Ah, un’ultima cosa: lo sapevate che l’inno di Mameli è ufficialmente solo in via provvisoria il nostro inno? (C’è chi vorrebbe “Va pensiero”).
Anche in questo noi italiani siamo divisi, da non crederci.
I precedenti interventi di G.C. sono disponibili a questo indirizzo