Web – Sono alcune settimane che giornali e telvisione fanno a gara nel pubblicizzare l’annunciato successo televisivo di una trasmissione, prossimamente in onda, chiamata “Il Grande Fratello”. Per i pochi che ancora non lo sanno, si tratta di far abitare per qualche mese un gruppo di persone in una casa completamente controllata da telecamere e microfoni che ritrasmettono in tv (ed eventualmente su web) gli avvenimenti quotidiani che si susseguono dietro quelle quattro mura. Periodicamente, a seguito di una votazione, vengono allontanati dalla casa gli abitanti meno “popolari” fra gli spettatori fino a quando (come in “Highlander”) ne resterà solo uno che si aggiudicherà un premio in danaro.
Il fatto di vivere con una telecamera che ti osserva non è certo una novità (accade ogni giorno a tutti noi) e nemmeno trasmettere a fini commerciali scene di vita quotidiana più o meno fasulle (sul web i siti del genere sono anche troppi). Quello che sembra suscitare l’interesse dei commentatori è soprattutto il titolo del programma, che rimanda al fosco futuro orwelliano.
Ma forse, non è da trasmissioni come queste che dovremmo guardarci, quanto piuttosto da avvenimenti sicuramente meno pubblicizzati da giornali e tv, che intaccano, un po ‘ alla volta, quel che ancora ci resta di riservatezza in una società telematica.
Prendiamo, ad esempio, il problema di come le imprese commerciali statunitensi trattano i nostri dati personali quando acquistiamo qualcosa su web. Un argomento sempre di attualità che rimanda ad un contenzioso esistente fra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, di cui già si è occupato Punto Informatico.
L’Unione Europea ha diramato (il 25 ottobre del 1998) una direttiva che prevede la possibilità di trasferire dati personali dei cittadini europei verso paesi terzi, ma solo verso quelle nazioni che provvedono ad un “adeguato” livello di tutela della riservatezza.
In altre parole, il Parlamento Europeo ha fatto sapere che non si fida troppo di come vengono trattati oltre oceano i nostri dati personali e a questo gli Usa hanno risposto, tramite il Dipartimento per il Commercio, con una serie di norme di autoregolamentazione, denominata “The Safe Harbor Privacy Principles” che prevedono per le ditte statunitensi alcuni obblighi riguardanti la correttezza del trattamento dei dati sensibili ottenuti dai cittadini europei.
Il 5 giugno scorso, con un voto unanime, gli stati europei hanno giudicata “adeguata” la protezione garantita tramite il “Safe Harbor”, dopo che questo era stato ulteriormente modificato in base a delle precedenti richieste pervenute del Parlamento europeo.
Tutto bene quindi? Non proprio.
Una associazione per la difesa dei cittadini, il “Citizen’s Rights Committee”, ha duramente criticato tale decisione chiedendo che prosegua il blocco dell’esportazione dei dati, almeno fino a quando non ci sia stata una ulteriore revisione dei principi sui quali si basa il “Safe Harbor” e soprattutto fino a che essi non siano completamente e concretamente applicati.
Tra i motivi che hanno fatto esprimere questa contrarietà c’è il fatto, non trascurabile, che non è previsto in alcun caso la possibilità per il singolo cittadino di appellarsi contro il modo col quale sono trattati i suoi dati.
A questa protesta i governanti europei hanno risposto, da bravi burocrati, in modo alquanto ambiguo: da una parte hanno ammesso che, a differenza di quanto avviene sul vecchio continente, in Usa è “carente” la legislazione sulla protezione dei dati personali che entrano in possesso di una compagnia privata, e dall’altra hanno detto che il risultato raggiunto nella contrattazione era il massimo che si poteva ottenere e che quindi era impossibile porre ulteriori condizioni al “Safe Harbor” perché sarebbero state interpretate come un totale rifiuto.
Come consolazione, il Governo Europeo ha promesso a coloro che dubitano dell’efficacia di questo accordo di monitorare attentamente l’applicazione dei principi di salvaguardia dei dati sensibili, il che – implicitamente – significa che continuano a non fidarsi.