Secondo il Ministro dell’Innovazione Renato Brunetta la sua iniziativa di “regalare” ad ogni cittadino un indirizzo di Posta Elettronica Certificata (n.d.r. in realtà il Ministro ci regalerà una CEC PAC ovvero una PEC utilizzabile solo per comunicare con la PA) è “la più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese” nonché “la migliore riforma italiana dal dopoguerra ad oggi”.
Sarà anche vero, ma si tratta di una “rivoluzione” che minaccia di travolgere la libertà di domicilio (informatico) e le più elementari regole del mercato e della concorrenza.
Andiamo con ordine.
La nostra Costituzione – al pari delle carte costituzionali di ogni altro Paese democratico o aspirante tale – riconosce a tutti i cittadini – ed in realtà anche ai non cittadini purché legittimamente presenti sul territorio italiano – tra gli altri, il diritto a fissare liberamente il proprio domicilio. Nel 2010 una casella di posta elettronica, al pari del nostro PC o, piuttosto, del nostro account su Facebook, costituiscono naturali proiezioni informatiche del nostro domicilio con la conseguenza che spetta a ciascuno di noi, in assoluta autonomia, decidere se e quale indirizzo di posta elettronica utilizzare, chi ammettere al nostro profilo su Facebook o, piuttosto con chi condividere i dati sul nostro PC.
Tale libertà è costituzionalmente garantita ed ammette di essere limitata nelle sole ipotesi previste, appunto, dalla Carta Costituzionale.
L’elezione di domicilio – sia esso informatico o geografico – ovvero la manifestazione con la quale si porta a conoscenza di un soggetto terzo – privato o pubblica amministrazione – la volontà di ricevere tutte le comunicazioni relative ad un determinato affare o procedimento presso un certo indirizzo, costituisce una forma di esercizio di tale libertà.
È, dunque, fuor di dubbio che manifestare alla pubblica amministrazione la volontà di ricevere comunicazioni elettroniche – via PEC, CEC PAC o semplice mail – presso un determinato indirizzo rappresenta, appunto, esercizio dell’insopprimibile libertà di domicilio costituzionalmente garantita.
Proprio muovendo da tale presupposto, d’altro canto, il D.p.r. 11 febbraio 2005, n. 68 attraverso il quale è stata introdotta nel nostro Ordinamento la Posta Elettronica Certificata prevedeva – e prevede tuttora – all’art. 4 che ” Per i privati che intendono utilizzare il servizio di posta elettronica certificata, il solo indirizzo valido, ad ogni effetto giuridico, è quello espressamente dichiarato ai fini di ciascun procedimento con le pubbliche amministrazioni o di ogni singolo rapporto intrattenuto tra privati o tra questi e le pubbliche amministrazioni. Tale dichiarazione obbliga solo il dichiarante e può essere revocata nella stessa forma “.
Opportunamente, inoltre – con riferimento specifico alle comunicazioni tra PA e cittadini – l’art. 16 dello stesso D.p.r. 68/2005, chiarisce che ” Le pubbliche amministrazioni garantiscono ai terzi la libera scelta del gestore di posta elettronica certificata “.
Non vi era e non vi è, infatti, alcuna ragione per limitare – ammesso anche che ciò possa ritenersi costituzionalmente legittimo – la libertà di domicilio nelle nuove dinamiche delle comunicazioni elettroniche che, anzi, semmai, abilitano ciascun cittadino ad un più ampio ed autonomo esercizio di tale libertà giacché cambiare indirizzo di posta elettronica e/o decidere di utilizzare diversi indirizzi a seconda della natura dell’affare o del procedimento è assai più facile di quanto non sia nelle dinamiche delle comunicazioni cartacee tradizionali.
Non la pensa così, tuttavia, il Ministro dell’innovazione che, infatti, nel lanciare la sua “rivoluzione” con il DPCM 6 maggio 2009 ha stabilito che i cittadini che richiedano ed ottengano un indirizzo CEC PAC di Stato eleggono con ciò, automaticamente e coattivamente, il proprio domicilio, in relazione a tutte le comunicazioni con la PA, presso l’indirizzo loro fornito dal concessionario pubblico.
Ma c’è di più.
Lo stesso DPCM, prevede, infatti che ” L’affidatario del servizio di PEC ai cittadini…renda consultabili alle pubbliche amministrazioni, in via telematica, gli indirizzi di PEC di cui al presente decreto “.
Come è noto, nei mesi scorsi, all’esito di una procedura di gara la cui legittimità è, peraltro, attualmente al vaglio dei Giudici amministrativi, il Ministro Brunetta ha assegnato – come peraltro ampiamente ed agevolmente già previsto da molti – la concessione ad un raggruppamento di imprese costituito da Poste Italiane e Telecom Italia. Il nuovo concessionario CEC PAC di Stato, nei giorni scorsi, ha quindi iniziato a distribuire i propri indirizzi di posta elettronica ai cittadini italiani e ad inserirli nel registro attraverso il quale le pubbliche amministrazioni potranno individuare i “domicili informatici” degli italiani.
Sembra, tuttavia, che in tale registro possano essere iscritti unicamente gli indirizzi targati “Poste” ovvero quelli rilasciati dal concessionario di Stato e non anche tutti gli equivalenti indirizzi di posta elettronica certificata di cui i cittadini italiani già dispongono o disporranno e sui quali, in ipotesi, potrebbero desiderare ricevere anche le comunicazioni da parte della PA. Si tratta di una gravissima limitazione della libertà di domicilio ingiustificata ed ingiustificabile e, in ogni caso, di un’evidente violazione della disciplina relativa all’utilizzo della Posta Elettronica Certificata tuttora vigente che continua a prevedere che il cittadino possa scegliere di utilizzare, nei rapporti con la PA, un indirizzo di Posta Elettronica Certificata ottenuto da un qualsiasi fornitore – e non solo dal concessionario di Stato – e utilizzare indirizzi diversi per ogni procedimento amministrativo. È, dunque, urgente che il Ministro imponga al concessionario pubblico di accettare l’iscrizione nel registro di qualsiasi indirizzo di Posta Elettronica Certificata, restituendo così a tutti i cittadini il diritto di esercitare la propria libertà di elezione di domicilio (informatica).
In tal modo, peraltro, le centinaia di migliaia di professionisti italiani che negli ultimi mesi sono stati “obbligati” a dotarsi di un indirizzo di Posta Elettronica Certificata, potrebbero decidere che la Pubblica Amministrazione utilizzi il medesimo indirizzo per le proprie comunicazioni, sottraendosi così al serio rischio di ammalarsi di una pericolosa forma di “schizofrenia domiciliare informatica”, dovuta al fatto di dover gestire – volenti o nolenti – tre o più indirizzi di posta elettronica.
Ma perché a Palazzo Vidoni avrebbero commesso un errore – se di questo si è trattato – tanto grossolano e, comunque, capace di limitare così gravemente la libertà dei cittadini? Temo che la risposta vada ricercata nelle regole del mercato o meglio nella violazione di queste regole che rischia di perpetuarsi se tale situazione non verrà rapidamente risolta.
L’attuale impossibilità per gli utenti dei servizi di Posta Elettronica Certificata erogati da fornitori diversi rispetto al concessionario di Stato Poste italiane, di inserire i propri indirizzi nel registro gestito dallo stesso concessionario, infatti, si traduce in ostacolo alla concorrenza specie sul mercato delle comunicazioni tra PA e cittadini, a tutto vantaggio del concessionario di Stato al quale si è, per questa via, riconosciuto una sorta di nuovo monopolio, almeno di fatto, nella gestione delle comunicazioni elettroniche tra PA e cittadino.
Se si tiene conto che, secondo le dichiarazioni rese a Panorama dallo stesso Amministratore delegato di Poste Italiane, ogni anno dalla Pubblica Amministrazione italiana partono 90 milioni di raccomandate che garantiscono alle Poste 265 milioni di euro, non è difficile comprendere perché l’attuale concessionario della CEC PAC di Stato – già primo concessionario del telegrafo – non abbia comprensibilmente nessuna intenzione di spartire la torta delle raccomandate del XXI secolo con i suoi potenziali concorrenti ovvero con gli altri fornitori di PEC.
Si tratta, tuttavia – almeno sotto il profilo della gestione del registro degli indirizzi dei cittadini italiani e dell’apertura di tale registro anche agli indirizzi forniti dai concorrenti – di una posizione non condivisibile. Il registro va aperto subito perché non vi è alcuna ragione che possa giustificare un trattamento palesemente discriminatorio in danno dei concorrenti del concessionario di Stato e dei consumatori.
L’apertura del registro è un’esigenza giuridica, di mercato e, soprattutto, di politica dell’innovazione: non si può consegnare ancora una volta il Paese ad un monopolista solo per indennizzarlo di una potenziale perdita figlia del progresso e dei tempi che passano.
L’era dell’accesso, come l’ha battezzata Jeremy Rifkin, è bella anche per questo: i monopoli legali e/o di fatto durano meno ed i concorrenti, sul mercato, possono alternarsi alla leadership più velocemente di un tempo.
Se PEC – o CEC PAC – deve essere, che almeno sia garantito il rispetto delle libertà fondamentali dei cittadini e delle regole del mercato.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it