Il reato “oltraggio alla corte” può assumere una nuova forma: cercare online notizie sull’imputato quando si svolge il ruolo di giurato andando a compromettere la propria neutralità di giudizio e influenzando la giuria.
L’ultimo caso che ha visto la tecnologia in veste di protagonista osteggiata nelle sale di tribunale vede, appunto, un giurato di una corte britannica condannato perché ha cercato online informazioni che non avrebbero dovuto influenzare la sentenza .
Durante il processo che aveva come imputato Barry Medlock, infatti, una donna della giuria, la 34enne britannica di origine greca docente di psicologia Theodora Dallas, ha consultato Internet arrivando ad informazioni che potrebbero aver influenzato la capacità di giudizio sua e del resto della giuria da lei successivamente informata di quanto scoperto .
L’imputato era accusato di aver provocato “gravi danni fisici”, linguaggio specifico che per la normativa britannica configura tutte quelle situazioni in cui vengono causate ferite gravi. Proprio per chiarirsi il preciso significato di tali parole, tuttavia, Dallas avrebbe provveduto a cercare online tale formula, in inglese “grievous bodily harm”. Poi, forse spinta dalla curiosità, avrebbe affinato la ricerca aggiungendo la parola “Luton”, nome della città dove si svolgeva il processo.
A quel punto è incappata in un articolo di giornale che raccontava di una precedente accusa di stupro mossa nei confronti dell’imputato Medlock: accusa che non avrebbe dovuto influenzare il caso, in quanto l’uomo ne era stato assolto.
Nonostante questo, e non sapendo neanche che fosse proibito ai giurati cercare informazioni su Internet sul caso, Dallas avrebbe a quel punto ritenuto importante informare gli altri giurati di quanto scoperto. Uno di loro, tuttavia, ha informato della delazione il giudice che si è visto costretto ad abbandonare il processo (continuato poi con una giuria diversa e conclusosi con la condanna di Medlock) e a rinviare la donna a giudizio per oltraggio alla corte.
In pratica, nei tribunali che chiedono l’intervento di una giuria popolare, ai giurati si chiede di agire come dietro un “velo di ignoranza”: una tabula rasa che lascia a valutare il caso solo il senso comune, ignorando fatti non presentati da accusa e difesa ed eventuali discriminazioni legate ad altri fattori.
Dallas aveva invece disobbedito a questo principio e a quanto prescritto ai giurati dal giudice (in particolare per quanto riguarda la proibizione di cercare online notizie sul procedimento) ed in questo modo avrebbe influenzato la giuria ed arrecato un danno all’amministrazione della giustizia .
Per questo la donna è stata condannata a 6 mesi di carcere .
Mentre prima bastava chiudere il gruppo di giurati in una stanza provvedendo ad escluderli da quello che succede fuori, con l’attuale diffusione di smartphone e dispositivi mobile il controllo è, se non impossibile, quantomeno molto difficile: nel caso in esame solo la condivisione delle informazioni trovate con altri ha portato ad individuare il comportamento scorretto.
Oltre a questo caso, poi, sono diverse le forme di interferenza tra sistema giudiziario e tecnologia: l’ episodio più curioso vede un cittadino statunitense chiamato a svolgere il ruolo di giurato cercare di scampare all’onere aggiungendo ai propri amici l’imputato (salvandosi per un pelo dalla condanna alla prigione); in un altro un procedimento della Corte Suprema statunitense ha deciso di ripetere un procedimento perché uno dei giurati, pur non entrando nel merito ma limitandosi a parlare di caffè e tempo, ha utilizzato il suo smarpthone per twittare.
A differenza di questi casi statunitensi, Dallas rischia, neanche fosse la protagonista di un mito greco, di veder tutta la sua vita compromessa dalla sua curiosità : per lei niente clemenza dalla Corte, tanto che la pena non è stata sospesa dal giudice. E i sei mesi di prigione rischiano ora di mettere a repentaglio la sua carriera d’insegnante: ha già dato le dimissioni dal suo attuale posto di lavoro.
Claudio Tamburrino