Quando la pandemia è esplosa, non c’è stato il tempo di ragionare: le decisioni sono state impulsive, obbligate, violente, improvvise e – col senno del poi – corrette. Bisognava chiudere e guadagnare tempo, quindi ragionare e capire come opporre resistenza alla minaccia che arrivava da Wuhan prima e Codogno poi. Sono dovuti passare mesi per riuscire a riprendere il bandolo della matassa e iniziare a parlare di politiche di resilienza e rilancio, per organizzare il Green Pass, per arrivare a declinare meglio le chiusure selettive e formalizzare una strategia vaccinale. Il grande vanto di quel periodo è stato lo sbandierare il vessillo del “data driven“, mettendo scienza e numeri avanti a tutto.
Sembrava essere un’effige, un’icona, una filosofia. Invece, forse, era solo una foglia di fico.
Sembrava data driven
Iniziamo a capire davvero cosa fosse tutto quel “data driven” soltanto oggi. Non appena le difficoltà sono tornate all’orizzonte, infatti, ecco svelarsi la natura vera di coloro i quali ancora una volta stanno cedendo alla tentazione di non guardare in faccia la realtà, ma di voltare le spalle o chiudere gli occhi. C’è di tutto in questo schieramento: c’è il politico e c’è l’opinionista, c’è il cittadino sui social e c’è l’epidemiologo di turno, c’è il filosofo e c’è il giornalista. Senza più neppure il comodo distinguo tra no-vax e si-vax: c’è di tutto sulla piazza, pur di negare i numeri quando i numeri non corroborano l’opinione.
La prima tentazione è stata quella di ridurre i bollettini informativi quotidiani. Come fossero un’anomalia italiana (ma in realtà tutti i grandi Paesi dispongono di portali informativi paritetici e, anzi, ancor più capillari e precisi), i bollettini quotidiani sono stati descritti in queste ore come motore di paura e di eccessive emozioni. Come se i numeri – e non la loro narrazione ondivaga, quando non il loro uso strumentale – potessero raccontare realtà differenti da quelle che fotografano. Come se la matematica fosse opinione in sé. E allora, per evitare le emozioni, meglio non sapere; per evitare di spaventarsi, meglio ignorare; contro la paura del buio, meglio chiudere gli occhi.
La seconda tentazione è quella di cambiare la natura dei numeri per cercare di deviare il corso delle regole. Invece di accordarsi sugli standard – e di conseguenza sugli algoritmi che dovrebbero regolare aperture e chiusure – si cercano le eccezioni alla regola per mutare i numeri di partenza e mandare fuori dai binari i regolamenti. Alla vigilia delle zone arancioni ecco esplodere quindi il dibattito sulle ospedalizzazioni, sui distinguo in terapia intensiva, sulle etichette da attribuire ai ricoverati. Dibattito corretto e legittimo, sia chiaro, se non fosse chiara la sua natura strumentale.
Sembravano politiche data driven, ma abbiamo imparato sulla nostra pelle come il rischio del data driven è che lo si usi per mascherare l’assenza di omogeneità nelle prese di posizione. La ricerca del consenso non può operare in logica data driven, ma ha invece la continua pulsione a deviarla, plasmarla, piegarla alle proprie necessità. Ora che il consenso viene ad essere sempre più importante (c’è profumo di elezioni nell’aria), tutto quel che è data driven inizia a calzare stretto ed a suonare cacofonico: meno numeri, oppure leggiamoli diversamente, purché si eviti di graffiare quotidianamente la sensibilità dell’elettore.
Ma la pandemia non ha cicli elettorali a cui dover rispondere. Procede sul suo tragitto e non guarda in faccia a nulla. Sciorina i suoi dati, riempie gli ospedali, allunga i necrologi e si lascia fotografare proprio attraverso la radiografia dei dati quotidiani. Possiamo voltarli, nasconderli o colorarli, ma non possiamo cambiarne la natura. Affrontarli è difficile, ma è nella complessità che si potranno costruire le migliori politiche, anche al netto di una peggior (in quanto più acida) narrazione.