L’industria della musica non agisce come un cartello, non detiene il suo potere in virtù di comportamenti lesivi della concorrenza. Lo hanno stabilito due giudici nell’ambito di due diversi processi, uno intentato da LimeWire nei confronti delle major, e uno intentato da RIAA nei confronti di una utente delle reti P2P, entrambi volti a richiamare l’attenzione sull’intreccio di interessi che mantiene compatta e anacronistica l’industria della musica.
Le proteste di LimeWire, a cavallo tra una denuncia e un’ardita provocazione, erano state depositate presso il tribunale federale di Manhattan in risposta ad una aggressione legale di RIAA, che sosteneva che LimeWire incoraggiasse i suoi utenti a far circolare illegalmente materiale coperto da copyright. LimeWire aveva controdenunciato le etichette per la loro capacità di tenere le redini del mercato con negoziazioni e accordi volti a manipolare i prezzi della musica all’ingrosso e al dettaglio e volti a squalificare ogni potenziale concorrente che non si piegasse alle loro condizioni.
LimeWire, oltre a segnalare che la propria richiesta di cooperare con l’industria per porsi come attore legale sulla scena P2P era già stata respinta dalle major, lamentava il fatto che le etichette imponessero agli operatori del P2P di introdurre dei filtri ufficiali , pena la mancata concessione della licenza di distribuire musica: a detta di RIAA non bastavano a proteggere la musica i filtri autonomamente introdotti da LimeWire e dagli altri operatori del P2P per scoraggiare lo sharing illegale. Ciò costituiva una sorta di ricatto, a parere di LimeWire, un comportamento che metteva sotto scacco tutti gli operatori alternativi e legali che decidessero di non scendere a compromessi con le etichette e che contribuiva a consolidare il monopolio di fatto detenuto dall’industria della musica.
Ma le argomentazioni di LimeWire sono state rigettate dal giudice: troppo deboli e lacunose per dimostrare che l’industria della musica operi compatta in violazione della legge per spremere il mercato e ostacolare l’ingresso di competitor che potrebbero offrire agli utenti soluzioni innovative, vantaggiose e di qualità. Caso chiuso.
Altra conferma del fatto che l’industria dei contenuti per i tribunali americani non remi contro un mercato concorrenziale giunge dal contenzioso che ha visto contrapposti Universal Music Group e Marie Lindor, colpevole di aver condiviso musica illegalmente. Il caso è balzato sovente agli onori della cronaca poiché dovrebbe far emergere una realistica stima dei danni subiti dall’industria della musica, danni a cui far corrispondere il risarcimento che le major puntualmente chiedono agli utenti colti in fallo. Nella strategia difensiva della signora Lindor si sottolineava come le major fossero illegalmente coalizzate per terrorizzare i cittadini impugnando come un’arma impropria le leggi a tutela del copyright.
Facendo fronte comune contro i pirati, l’industria della musica avrebbe fissato delle pratiche routinarie capaci di convincere i tribunali della cattiva condotta degli utenti. Nulla di illegale , a parere del giudice incaricato di dirimere il caso: le major hanno tutto il diritto di presentarsi in tribunale sotto l’egida di RIAA e non risulta che abbiano piegato le leggi sul copyright per soffocare la concorrenza.
Ora che le rassicurazioni dei giudici hanno smentito gli scenari più bui tracciati dai teorici della cospirazione , saranno in molti a dormire sonni più tranquilli.
Gaia Bottà