Lo streaming sa compensare i cali della musica fisica e dei download digitali sul mercato statunitense: crescono gli utenti, crescono le sottoscrizioni a pagamento. Crescono gli incassi, secondo la Recording Industry Association of America (RIAA), ma potrebbero crescere di più.
Con i dati relativi alla prima metà del 2016 RIAA fa il punto delle tendenze di un mercato che, in una manciata di anni, è profondamente cambiato, ma è tornato a mostrare una crescita decisa, come non si vedeva dalla fine degli anni 90 quando era la musica su supporto a dominare la scena. Il responsabile di questo guizzo, ampiamente previsto dai dati del recente passato , è il mercato dello streaming, che si è arricchiato di offerte e di contendenti che stanno mostrando di saper conquistare le platee connesse.
A dare prova di questa tendenza ci sono le percentuali di fatturato dell’industria musicale statunitense: se la musica immateriale costituisce l’80 per cento del mercato, con una crescita che conferma le tendenze in corso da tempo, gli equilibri interni in questo comparto continuano a sbilanciarsi a favore della musica fruita in streaming. Il valore dei download è calato del 17 per cento rispetto al primo semestre del 2015, mentre lo streaming vale ora il 47 per cento del mercato , a fronte del 32 per cento rilevato per i primi sei mesi del 2015 e del 34,3 per cento dei dati di fine 2015. In termini assoluti, il segmento dello streaming ha pagato nella prima metà del 2016 1,6 miliardi di dollari , un valore in aumento del 57 per cento rispetto allo scorso anno.
Le scommesse dell’industria sono da tempo orientate sullo streaming a pagamento e i dati dimostrano come siano ben riposte: il dinamismo del mercato, con i numeri totalizzati dalle proposte di nuovi attori come Apple Music e con le conferme di soggetti da tempo affermati come Spotify, vale una raddoppio in termini di abbonati e di fatturato rispetto alla prima metà del 2015. Lo streaming a pagamento in sei mesi ha conquistato un giro di affari di 1,01 miliardi di dollari , in crescita del 112 per cento rispetto allo scorso anno, e 18,3 milioni di abbonati, per una crescita del 101 per cento anno su anno che sta incoraggiando soggetti come Amazon a giocare la proprie carte.
Se il modello ibrido dei servizi di radio in streaming che si affidano al licensing di SoundExchange continuano a garantire soddisfazioni, il mercato delle soluzioni di streaming gratuite e alimentate dalla pubblicità costituisce un cruccio per l’ìindustria della musica. Non perché non cresca, anzi: nei primi sei mesi dell’anno ha reso 195 milioni di dollari , il 24 per cento in più rispetto allo scorso anno. Il motivo delle apprensioni dell’industria della musica risiede nelle dinamiche di questo modello di business, rappresentate da YouTube.
Secondo dati RIAA per il mercato statunitense, ampiamente confermati su scala globale per i 13 mercati più rilevanti rappresentati nella recentissima ricerca IFPI sul consumo di musica commissionata a IPSOS, YouTube è fonte di intrattenimento musicale in media per l’82 per cento del suo miliardo di utenti .
YouTube è gratuito, ragione che spinge il 49 per cento dei suoi utenti a fruirne per consumare musica, YouTube consente di ascoltare dei brani per cui non si è disposti a spendere, secondo il 32 per cento di chi lo utilizza per la musica. Solo il 27 per cento lo considera uno strumento utile per una prova prima dell’acquisto. YouTube, pur essendo la più colossale piattaforma per la fruizione, non rende abbastanza: questo impensierisce l’industria.
Da tempo i detentori dei diritti lamentano un’iniquità di trattamento da parte della piattaforma di Google in termini di royalty pagate, e il CEO di RIAA Cary Sherman non esita a ribadirlo : la disparità di incassi per 1000 fruizioni su YouTube e su Spotify è evidente, e nonostante per l’utente non cambi alcunché, “per la community di musicisti e di etichette che lavorano instancabilmente per scrivere, registrare e mettere a disposizione quella musica al pubblico fa la differenza tra fare della musica un lavoro a tempo pieno e la necessità di tornare a servire ai tavoli per sbarcare il lunario”.
“Google può fare di meglio”, rimarca Sherman, in coro con IFPI, che sottolinea come YouTube incarni il problema del value gap, di quella che viene vista come una sproporzione tra il successo della musica in termini di consumo e l’esiguità dei profitti. I legislatori, al di qua dell’Atlantico e al di là , si sono già mostrati sensibili alle rivendicazioni dell’industria.
Gaia Bottà