Il Tribunale di Roma ha condannato la piattaforma Break per la diffusione abusiva di 48 video estratti dai programmi di RTI e ha stabilito che l’avente diritto non deve segnalare l’URL preciso dei contenuti ritenuti in violazione .
Il caso è quello che vede la piattaforma di video sharing della statunitense TMFT Enterprises, LLC – Break Media, chiamata in giudizio da RTI (Reti Televisive Italiane S.p.A.) del gruppo Mediaset per una serie di spezzoni (complessivamente di 77 minuti) di trasmissioni televisive (tra cui “Buona Domenica”, “Matrix”, “Paperissima”, “Ciao Darwin”, “Corrida”, “Maurizio Costanzo Show”, “Le Iene”, “Scherzi a parte” e “Zelig”) trasmessi in modalità streaming sul portale break.com in violazione del diritto d’autore.
La piattaforma dovrà risarcire 115mila euro di danni più le spese legali (oltre 20mila Euro). La sentenza, ora pubblicata , ha inoltre stabilito una penale di mille euro per ogni futura violazione e per ogni ulteriore giorno di permanenza sulla piattaforma di contenuti segnalati e ha disposto la pubblicazione della stessa per due giorni consecutivi su IlSole24ore e il Corriere della Sera nonché nella homepage del portale break.com .
L’aspetto più rilevante della decisione tuttavia, appare quella che stabilisce la non necessità della specifica indicazione di ogni URL relativo ai singoli contenuti in violazione nella diffida con cui se ne richiede la rimozione. Si tratta di una decisione che apparentemente sembra discostarsi dal principio di non responsabilità degli ISP se non a seguito di una notifica di violazione ricevuta, sancito dalla Direttiva sul commercio elettronico nell’UE, ma che arriva a tale conclusione tramite una particolare interpretazione proprio di tale normativa e attraverso una distinzione tra tipi di provider, in particolare riconoscendo a break.com un ruolo redazionale minimo ma sufficiente a rendere possibile il suo controllo sui contenuti o almeno una sua identificazione, una volta venuto a conoscenza della violazione e dei titoli dei programmi coinvolti.
Il quadro normativo di riferimento
Il quadro normativo di riferimento, insomma, resta quello delineato dalla Direttiva europea 2000/31 che non prevede alcun obbligo di sorveglianza preventiva o generalizzata a carico del provider sui contenuti caricati o scambiati dagli utenti, ma solo obblighi di attivazione successivi rispetto a contenuti segnalati dagli aventi diritto o scoperti dallo stesso provider e aventi natura illecita.
Tale direttiva, adottata dai diversi Stati membri (in Italia dal Decreto legislativo 9 Aprile 2003 n.70/2003) ed oggetto di applicazione delle sentenze in materia della Corte di Giustizia europea e dei diversi tribunali nazionali, tuttavia, non fornisce indicazioni circa i contenuti che una diffida degli aventi diritto debba avere per far insorgere in capo al provider un obbligo di attivazione, ovvero non specifica il modo in cui un ISP debba essere messo a conoscenza dei contenuti trovati in violazione.
La sentenza
La sentenza cerca dunque di rispondere a tale questione e per farlo delinea una dicotomia tra hosting passivo e hosting attivo , riconoscendo ai primi il ruolo di semplici fornitori di strumenti tecnici per la condivisione e ai secondi un ruolo non meramente passivo e neutrale rispetto ai contenuti diffusi dagli utenti e a specifiche scelte editoriali.
Nel caso in questione, il Tribunale esclude che Break sia riconducibile alla prima figura di hosting provider delineata dall’art. 16 D. Lgs. 70/2003 (corrispondente all’art. 14 direttiva 2000/31). Infatti, anche se Break affermava di essere un “social network” che si limita ad offrire uno spazio virtuale per permettere a ciascun utente di ricercare e visionare un vasto archivio di contenuti audiovisivi pubblicati da terzi e agli utenti registrati di condividere video e filmati e di postare i propri commenti sotto di essi, secondo il tribunale essa non si limiterebbe a questo ma rappresenterebbe un “aggregatore” che organizza e mette a disposizione degli utenti contenuti audiovisivi provenienti da diverse fonti. Tale contenuti, inoltre, non sarebbero “casualmente immessi dagli utenti ma catalogati ed organizzati in specifiche categorie” e per questo esisterebbe un “intervento diretto anche nei contenuti” e dunque la possibilità di scegliere, all’interno del programma, la parte che interessa collegandola ai “video correlati”.
Break.com viene quindi definito dal Tribunale di primo grado un “sofisticato content provider” che rientra nella definizione di “hosting attivo” in quanto “seleziona i contenuti mettendoli nella home page della categoria” e “dispone di un editorial team”.
Per questo, “è evidente l’inapplicabilità in relazione a questa attività dell’art. 16 cit. Dlgs n.70/2003 ed invece la conseguente responsabilità in base alle norme comuni”. Ciò, si sostiene nella sentenza, in armonia con la giurisprudenza ormai consolidata italiana e comunitaria che ha delineato il ruolo attivo dell’ISP laddove esista “un pur minimo contributo all’editing del materiale sulla rete lesivo di interessi tutelati”.
Inoltre, per quanto anche il cosiddetto hosting attivo non possa essere soggetto, in base alla normativa di riferimento, “ad un obbligo generale di sorveglianza e di controllo preventivo del materiale immesso in rete dagli utenti” in quanto “obbligherebbe a predisporre un sistema informatico complesso costoso e permanente” e in quanto tale una “grave violazione della libertà di impresa”, non può escludersi comunque una sua responsabilità, “ogni qual volta venga messo a conoscenza, da parte del titolare dei diritti lei, del contenuto illecito delle trasmissioni, della quale deve pertanto rispondere se non si attiva per rimuovere gli stessi e prosegua invece nel fornire gli strumenti per la prosecuzione della condotta illecita”.
Citando la Corte di Giustizia nella decisione del 2010 relativa ai procedimenti riuniti che vedevano Google contrapposta a Louis Vuitton Malletier, il Tribunale di Roma ha stabilito l’esenzione da responsabilità prevista dall’art. 14 della direttiva 2000/31 quando il prestatore “dopo aver preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati e di attività di detto destinatari abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi” sancendo quindi che la conoscenza, comunque acquisita, della illiceità dei dati, fa sorgere l responsabilità civile e risarcitoria dell’ISP .
Secondo la decisione del tribunale di Roma, infatti, la Direttiva 200/31 – pur stabilendo l’ insussistenza di un obbligo generale di sorveglianza – prescrive il rispetto della normativa a tutela del diritto d’autore indicando nella “conoscenza effettiva” dell’illecito il momento dell’insorgere della responsabilità”.
L’indicazione dell’URL non è necessaria
Il Tribunale, quindi, respingendo la tesi della difesa secondo cui le due diffide ricevute da RTI fossero irrilevanti in quanto non sufficientemente specifiche nell’indicare i contenuti illeciti per determinare l’insorgenza dell’obbligo della rimozione, individuabile solo in un momento successivo (con la relazione tecnica nel corso del procedimento, prima occasione nella quale sarebbero stati indicati gli URL relativi ai video ritenuti in violazione), ha stabilito che non sia affatto necessario indicare gli URL specifici dei contenuti essendo sufficiente l’indicazione del nome delle trasmissioni illecitamente caricate sulla piattaforma, oltretutto facilmente rintracciabili su break.com utilizzando semplicemente il motore di ricerca interno.
Secondo la sentenza, perché la conoscenza sia “effettiva” è sufficiente quindi una semplice indicazione specifica della denominazione dei programmi , tramite diffida o altro mezzo (non è invece idonea l’indicazione generica di “tutti i programmi di RTI”).
Questo per la dimensione contenuta della piattaforma, per il suo ruolo di “hosting provider attivo” ed in quanto tale con un minimo di intervento sui contenuti, per la presenza dei loghi dei canali televisivi titolari dei diritti sulle trasmissioni illecitamente trasmesse in streaming e soprattutto perché gli URL rappresentano solo la localizzazione digitale di dove i video sono “caricati e non i file illeciti.
Di conseguenza, dice la sentenza, è “insostenibile” la tesi della necessità della specifica indicazione di ogni URL.
Precedenti e contraddizioni
Per quanto il Tribunale di Roma si agganci specificatamente ad un’interpretazione della normativa di riferimento in materia, adottata già rispondendo al ricorso del 2010 di Mediaset nei confronti di YouTube ( conclusosi poi con un accordo tra le parti) in precedenti casi simili erano state diverse le conclusioni raggiunge dai tribunali italiani : in particolare la Corte di Appello di Milano, nei casi che vedevano contrapposti sempre RTI a Yahoo! del gennaio 2015, avevano riconosciuto che il titolare dei diritti che non indichi espressamente gli URL delle pagine dove risultano pubblicati illecitamente i propri contenuti, non assolve compiutamente al proprio onere probatorio e pertanto aveva respinto la sua richiesta di imporre a Yahoo la deindicizzazione di tutti i risultati di ricerca che ospitassero frammenti dei contenuti su cui detiene diritti e che non puntassero al proprio portale.
Possibili sviluppi
Dal momento che la direttiva di riferimento europea risale ormai al 2000 e che nel frattempo si è dovuta confrontare con l’evoluzione delle piattaforma e dei servizi online che ha reso sempre più determinante l’opera della giurisprudenza e dei diversi tribunali locali, la Commissione europea sembra ora intenzionata ad intervenire per aggiornarla, in particolare nel senso dell’armonizzazione delle procedure di notifica e di segnalazione dei contenuti illeciti a livello europeo, anche per superare le incertezze determinate dalle singole decisioni nazionali.
Claudio Tamburrino