Russiagate, le soluzioni di Zuckerberg

Russiagate, le soluzioni di Zuckerberg

Il CEO di Facebook ha deciso di condividere documenti sensibili sul Russiagate con il Congresso USA: si tratterebbe di un caso eccezionale con implicazioni per la sicurezza nazionale. Per il futuro, però, promette più controlli
Il CEO di Facebook ha deciso di condividere documenti sensibili sul Russiagate con il Congresso USA: si tratterebbe di un caso eccezionale con implicazioni per la sicurezza nazionale. Per il futuro, però, promette più controlli

Da qualche giorno Facebook si trova il dito puntato contro per essere stata complice (involontaria) nel caso RussiaGate . Sul tema ha voluto vederci chiaro in prima persona Mark Zuckerberg che ha condotto un’indagine interna all’azienda per comprendere meglio l’accaduto. Quel che già è noto è che tra giugno 2015 e maggio 2017 numerosi account (470 in buona parte fake) hanno speso 100mila dollari per veicolare 3mila messaggi pubblicitari volti ad orientare l’opinione pubblica a favore del partito repubblicano. L’opera di diffusione dei messaggi è con buona probabilità di respiro russo. Facebook ha deciso di condividere le sue informazioni con il Congresso degli Stati Uniti come conferma un comunicato stampa ufficiale.


Il motivo per cui Facebook ha scelto di condividere con le autorità governative (e in particolare con il Congresso) le prove in suo possesso è dovuto all’eccezionalità dell’indagine e alla convinzione che i documenti possano contribuire a ricostruire correttamente ciò che è accaduto in occasione delle elezioni del 2016. “Vogliamo fare la nostra parte. Il Congresso è in grado di utilizzare le informazioni che noi e gli altri stiamo fornendo per informare il pubblico in modo chiaro e completo” – ha detto Facebook che ha aggiunto che la sua decisione è giustificata anche dal fatto che in merito al caso ci sono diverse questioni relative alla sicurezza nazionale e alla privacy da non sottovalutare.

In molti hanno criticato Facebook per non aver fatto nulla per impedire che i messaggi propagandistici di matrice russa fossero veicolati attraverso il suo social network. In questo caso l’azienda si discolpa confermando che all’epoca non aveva evidenze che l’acquisto di pubblicità fosse parte di un’operazione illecita studiata a tavolino . Alcuni sospetti sarebbero potuti maturare nel caso in cui il personale Facebook avesse fornito supporto commerciale nella fase di compravendita, ma nel caso specifico gli inserzionisti hanno agito in autonomia sfruttando i servizi “fai da te” di Facebook, senza alcuna consulenza fisica. Anche i filtri di Facebook sono stati gabbati dal momento in cui i messaggi non contenevano espliciti contenuti propagandistici, ma sfruttavano il pretesto dei problemi sociali per raggiungere un pubblico in quel momento particolarmente ricettivo e influenzabile . Dal punto di vista formale, quindi, non è stata registrata alcuna anomalia tale da poter far “alzare le antenne a Facebook”.

L’azienda non sarebbe dunque complice dell’accaduto, ma risulterebbe addirittura parte lesa. La sua piattaforma è stata gravemente macchiata per colpa dei troll, nonostante gli ingenti sforzi per mantenere la piattaforma pulita. Facebook, per sua stessa ammissione si è trovata in questo caso in un limbo: salvaguardare i dati degli utenti (i contenuti pubblicitari sono tra questi) rispettando la privacy o cedere alle richieste del Congresso e fornire i documenti in suo possesso? Di mezzo c’è la cosiddetta Reform 702 , ovvero la legge anti sorveglianza che intende promuovere e difendere i dati degli utenti ostacolando l’accesso indiscriminato agli stessi da parte dei governi. Ma evidentemente la vicenda è così fosca da aver giustificato la condivisione dei dati in possesso di Facebook con il Congresso. O almeno questo sostiene Zuckerberg, che cosciente delle minacce ha rassicurato che l’azienda si sta dotando di nuove misure difensive volte a identificare e bloccare questo tipo interferenze . Anche in Francia e in UK sempre in vista delle elezioni si sarebbero registrate attività illecite simili basate sull’utilizzo subdolo della sponsorizzazione dei post (ma il problema è condiviso con altre piattaforme ).

I 9 punti su cui Facebook si sta concentrando per stanare i colpevoli e bloccare sul nascere minacce di questo tipo sono: collaborare con le forze dell’ordine e istituzioni, effettuare indagini interne , rendere la pubblicità più trasparente mostrando chiaramente chi è l’inserzionista (dovrebbe essere implementata nei prossimi mesi), rinforzo del processo di approvazione per pubblicità a carattere politico, personale specifico per aumentare la sicurezza in particolare in vicinanza delle elezioni politiche, maggiori partnership con le commissioni per le elezioni in tutto il mondo , condivisione di informazioni sulla sicurezza e minacce con altre aziende , nuovi filtri per evitare molestie anche su temi politici, salvaguardare il processo elettivo . La prima occasione per verificare se la direzione intrapresa da Facebook sia efficace sono state le elezioni tedesche del weekend appena trascorso. E almeno in questa occasione l’opera di vigilanza sembra aver funzionato.

A rendere ancora più contorta l’intera faccenda è un recente report pubblicato dal Washington Post, in cui si rende noto un incontro avvenuto il 19 novembre a Lima, in Puru (quindi a pochi giorni dalle elezioni di Trump) tra l’ex presidente Obama e Zuckerberg . Secondo il rapporto, Obama avrebbe personalmente allertato Zuckerberg sull’impatto delle fake news pubblicate su Facebook, ma il CEO del social network avrebbe definito una “follia” l’idea che gli annunci pubblicati su Facebook potessero svolgere un ruolo chiave nelle elezioni. Secondo le rivelazioni riportate nell’articolo, si evince però che Facebook abbia individuato elementi dell’operazione di informazione russa già nel giugno del 2016 informando prontamente l’FBI, ma nei mesi successivi il governo non ha collaborato per diagnosticare e risolvere il problema.

Mirko Zago

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Pubblicato il
25 set 2017
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