I giganti dell’editoria stanno facendo pressing su Google con l’obiettivo di ottenere un ranking “di favore” per i propri contenuti. Perché, sostengono, gli attuali sistemi di classificazione e display di BigG non premiano a sufficienza i contenuti originali rispetto a quelli “riciclati”. E gli addetti ai lavori si dividono: colpa degli algoritmi di Mountain View, o di modelli di business editoriali non adeguati per la rete?
La notizia è rimbalzata da più parti in rete a partire da un articolo di Advertising Age . Al centro dell’azione di lobbying – che vede protagonisti player quali ESPN, Business Week e lo stesso New York Times – vi sarebbe la richiesta di criteri nuovi per l’indicizzazione e la presentazione dei risultati di ricerca . Perché, argomentano gli editori, gli algoritmi correnti non distinguono a sufficienza tra i contenuti di qualità e quelli “di seconda mano”, con il risultato che i prodotti originali sono spesso sopravanzati da quelli riusati.
“Non dovrebbe esistere un sistema – ha detto un executive anonimo ad Advertising Age – in cui coloro che vivono da parassiti sulle spalle dei produttori contenuti veri ottengono benefici sproporzionati rispetto agli sforzi compiuti”.
Per questo, i publisher chiedono a BigG di modificare il funzionamento corrente di PageRank , introducendo algoritmi in grado di premiare le fonti originali delle notizie. “Ma questo – chiosa un altro editore anonimo – non significa assolutamente dare un vantaggio esclusivo ai giornalisti professionisti. Significa solo che la fonte originale di una notizia, e coloro che ad essa hanno un accesso di prima mano, avrebbero diritto ad essere riconosciuti come la fonte più importante nella presentazione dei risultati”.
Stando alla ricostruzione di Advertising Age , le case editrici avrebbero esposto le proprie riserve a Google già in diverse occasioni. E il dossier sarà quasi sicuramente riportato sul tavolo alla fine del mese di aprile, quando Google incontrerà gli editori per il suo Publishers Advisory Council .
Nel frattempo, dalle parti di Mountain View cercano di mantenere una posizione neutra rispetto alla questione. Interpellato dai cronisti, un portavoce dell’azienda ha spiegato che “esiste senz’altro un valore nei contenuti originali”, salvo aggiungere subito dopo che “c’è un valore anche nei contenuti derivati”. Anche perché, spiega, esistono molte sfumature di grigio anche nella definizione di contenuto originale .
La presa di posizione degli editori ha sollevato un acceso dibattito in rete. La richiesta di attribuire maggiore peso specifico alle fonti che danno la notizia per prime appare a qualcuno legittima e ragionevole. Quello che invece non convince, scrive John Battelle, è che i giornalisti professionisti rivendichino la patente di “veri produttori” di notizie in rete, a fronte di una molteplicità di fonti. Anche perché, rincara TechDirt , le difficoltà di ranking esperite dai giornali sono in larga parte dovute all’inadeguatezza dei loro modelli di business, che hanno per lungo tempo disincentivato i link esterni e la fruizione libera dei propri contenuti.
In passato i publisher avevano guardato a Google con sospetto, arrivando in alcuni casi a denunciarla ] per infrazione delle leggi sul diritto d’autore. Ma la caduta libera nella raccolta pubblicitaria e nelle vendite in edicola hanno progressivamente modificato il quadro, portando gli editori a curare maggiormente la propria presenza online. E adesso, mentre i primi quotidiani e riviste scelgono di migrare completamente online, il ranking Google assume un’importanza ancor più strategica.
Giovanni Arata