Sembrerebbe una notizia poco incoraggiante per tutti gli appassionati di videogiochi: passare ore a smanettare con un controller non porterebbe ad alcun miglioramento nelle capacità cognitive, e non certo per merito di titoli del calibro di Medal of Honor. Al limite, si tratterebbe di una correlazione inversa: le persone con abilità percettive particolarmente spiccate sarebbero più facilmente attratte dalle esperienze videoludiche .
A sottolinearlo è una recente analisi pubblicata sulla rivista Frontiers in Cognition , a cura dei ricercatori Walter Boot e Daniel Blakely della Florida State University . Uno studio che ha capovolto numerose altre ricerche sul campo, come ad esempio quella condotta da Susanne M. Jaeggi a dimostrazione che l'”allenamento” condotto per mezzo di alcuni giochi possa portare ad evidenti benefici nella sfera cognitiva.
Studi del genere sarebbero affetti da serie falle metodologiche, almeno secondo la ricerca pubblicata su Frontiers in Cognition . Secondo Boot e Blakely, il diventare un gamer sarebbe soltanto la possibile conseguenza di un’eccellenza in determinati aspetti della mente e della percezione sensoriale . In pratica, certe persone avrebbero in ogni caso delle capacità più affinate della media, al di là del fatto che si intrattengano o meno in lunghe sessioni di gioco.
Ad essere smontato è stato soprattutto il criterio di scelta di certe analisi in materia, in particolare relativo al mettere a confronto gamer e non gamer . Secondo l’analisi, un videogiocatore avrebbe motivazioni in più per totalizzare buoni punteggi nei test, essendo stato chiamato in qualità di esperto . Nessuna analisi scientifica, sottolinea la ricerca, dovrebbe infatti reclutare un soggetto facendogli subito notare la sua esperienza nel campo.
Mauro Vecchio