L’istituzione delle pagine AMP sono state una piccola grande rivoluzione che Google ha suggerito/imposto al mondo del Web con l’avvento del mobile. “Suggerito”, perché si tratta di scelta del tutto indipendente; “imposto”, perché le condizioni congiunte richieste dal motore e proposte dalle AMP creavano la miglior commistione possibile per raggiungere gli obiettivi che l’esplosione degli smartphone richiedeva.
Oggi però qualcosa sta lentamente cambiando e l’abbandono delle “Accelerated Mobile Pages” da parte di un certo tipo di editori fa pensare che l’ortodossia AMP sia messa definitivamente in discussione, che il dogma non sia più sacrale e che l’alternativa possa esistere.
AMP in discussione
Le AMP sono la soluzione che Google ha messo a disposizione degli sviluppatori per creare una versione leggera e accelerata delle proprie pagine: i contenuti vengono forniti a Google, i cui server ricompongono il tutto servendo la pagina con maggior velocità per garantire una miglior esperienza al lettore. Può essere un vantaggio per l’indicizzazione e il posizionamento della pagina? Google ha sempre negato questo aspetto (e lo ribadisce in questi giorni), ma il dubbio ha sempre sfiorato quanti ne facevano uso, se non altro per l’aderenza delle AMP a quegli stessi principi di immediatezza e leggerezza che Google ha imposto al settore da Chrome in poi.
C’è però un dubbio ulteriore che poco alla volta è maturato in seno ai grandi editori. Se invece delle AMP si utilizzasse qualcosa di differente, senza compromessi in termini di velocità, ma con maggiori libertà in termini di advertising, sarebbe possibile monetizzare meglio le proprie pagine e la propria utenza? L’advertising è infatti un cappio stretto al collo dell’editoria online, con margini ormai fortemente risicati e un mercato pesantemente colonizzato da Google. Ciò nonostante, la dipendenza dagli strumenti Google si è prolungata nel tempo, come se nessuna alternativa riuscisse davvero a fare breccia.
Ma qualcosa sta cambiando.
Altre scelte
Secondo il Wall Street Journal, nomi quali Vox Media, BuzzFeed e Washington Post avrebbero già abbandonato la tecnologia AMP, servendo le pagine con altre modalità (sempre improntate ad essenzialità e velocità di consultazione) per poter avere mani libere nelle proprie scelte. Un percorso complesso e per certi versi coraggioso, ma obbligato: solo emancipandosi dalla soluzione standard è possibile immaginare qualcosa di nuovo con cui cercare un nuovo futuro all’editoria.
La risposta di Google al WSJ è chiara: non serve cercare altre soluzioni visto che le opzioni per l’adv sono già disponibili, la velocità è garantita, la gestione dei paywall è di libera scelta e non ci sono limiti oggettivi in quel che un editore può o non può fare. Piena libertà di scelta, comunque: optare per soluzioni differenti dalle AMP non comporterà penalizzazione alcuna sul motore di ricerca. Gli editori “ribelli” sostengono di poter trarre un 20% aggiuntivo dalle pubblicità gestite in proprio rispetto a quanto non fa Google e se questo fosse confermato allora l’emorragia potrebbe farsi più ampia: le AMP son qui per restare, insomma, ma se davvero emergesse una alternativa percorribile allora potrebbero diventare uno standard di rincalzo e non più l’opzione regina.
L’equilibrio tra Alphabet e mondo dell’editoria è da sempre dedicato: le parti vivono un rapporto che per certi versi è simbiotico e per altri è reciprocamente parassita, strappandosi quotidianamente quote dell’alimento comune composto di pane e advertising. L’introduzione delle AMP aveva creato un equilibrio apparentemente stabile, ma il tempo ha consumato gli entusiasmi e l’editoria si sta svegliando ora dal torpore della necessità per cercare maggiore autonomia. I dogmi cadono così, tirandosi dietro usi e costumi: l’autorità Google sul tema non è in discussione, né lo sarà per lungo tempo, ma per i grandi editori si apre quantomeno un’alternativa percorribile fatta di paywall, advertising proprietario ed un ritorno alle prerogative dei publisher di un decennio fa.