Era un’icona nazionale, è precipitata in un vortice di supposizioni alimentate dai cittadini della rete, si è suicidata. Il gesto dell’attrice simbolo della Corea del Sud ha scatenato un dibattito riguardo alle responsabilità dei media online: le autorità approfittano per minacciare regolamentazioni e provvedimenti per il controllo della rete.
Choi Jin-sil è stata trovata morta nel suo appartamento il 2 ottobre, le forze dell’ordine hanno stabilito che si è trattato di un suicidio. L’attrice era acclamata dalle autorità e amata dal pubblico. In un paese innervato dalla connettività, in un paese in cui la rete è impugnata dai cittadini come strumento di informazione e di dibattito alternativo ai media tradizionali, era inevitabile che la società civile connessa analizzasse a fondo il caso di Choi. Si sono affollate le supposizioni che il suicidio di Choi fosse da collegare a quello di un altro attore, Ahn Jae Hwan, che si sarebbe tolto la vita poiché strangolato dai debiti. Debiti contratti, insinuavano le voci circolate online, con Choi. L’attrice non avrebbe retto ai pettegolezzi, avrebbe deciso di non affrontare il proprio pubblico con delle giustificazioni.
“Lo spazio Internet nel nostro paese è diventato la parete di un bagno pubblico” denuncia Hong Joon-pyo, rappresentante della maggioranza di governo. Il suicidio dei due attori non è che l’ultima manifestazione di una catena di suicidi che sta decimando il mondo dello spettacolo coreano: la responsabilità, a parere delle autorità, è da rintracciare nell’ eccessiva libertà e sguaiatezza dei cittadini della rete , impegnati troppo attivamente per decostruire e sviscerare le notizie veicolate dai media tradizionali. La stessa Choi, quando la propria carriera era stata minata dall’invadenza delle malelingue online sulla sua vita privata, aveva dichiarato di essere spaventata dalla rete. Per questo motivo le autorità sono intervenute con delle proposte per contenere il fluire delle voci, per mettere a tacere i provocatori e le critiche più aggressive.
Da un mese sono stati sguinzagliati 900 agenti del centro antiterrorismo dedicato alla rete: si stanno occupando di scandagliare post e thread alla ricerca di messaggi diffamatori, punibili con più celerità di quelli veicolati dai media tradizionali, di arrestare coloro che abitualmente diano voce ad affermazioni false e tendenziose, a coloro che si rendano protagonisti di atti di cyberbullismo. Ma non è tutto: da tempo le autorità hanno stabilito che i siti con più di 300 mila visitatori al giorno debbano identificare gli utenti che desiderino partecipare al dibattito con un codice personale e legato a documenti di identità e a dati anagrafici, un codice che non ammette scambi di persona e sovrapposizioni di identità. Dopo la morte di Choi, a partire dal prossimo mese, la soglia dei visitatori si abbatterà: dovrà rinunciare all’anonimato chiunque decida di commentare su un sito che vanta 100 mila visitatori al giorno. Questi siti avranno il dovere di rivelare alle forze dell’ordine l’identità degli autori di sortite sconvenienti, mentre fermenta una proposta di legge che, sotto la minaccia di multe da 16 mila euro, potrebbe imporre agli operatori della rete il blocco dei contenuti potenzialmente travianti.
Ma alle spalle dell’intenzione di regolamentare Internet manifestata dalla maggioranza, ci sarebbe ben altro rispetto alla moria delle star: “Il governo vuole ricattare gli utenti di Internet in modo che non postino commenti critici nei confronti delle istituzioni” denunciano i rappresentanti dell’opposizione. “Se i politici credono di poter combattere i suicidi con una legge contro il cyberbullismo, stanno evitando di andare alle radici del problema – conferma uno psichiatra di Seul – stanno solo usando il caso di Choi come appiglio per regolare Internet”.
Se i cittadini concordano e intravedono nei provvedimenti uno strumento per imporre dei paletti alla libertà di espressione, il governo da tempo giustifica queste misure, le ritiene essenziali per combattere quella che il presidente Lee Myung Bak ha definito “comportamenti eccessivamente emozionali, indisciplinati, aggressivi: il paese ha bisogno di tutelarsi dalla disseminazione di informazioni false e poco accurate che suscitano il malcontento nella società e si diffondono come un’epidemia”.
Non di soli pettegolezzi si tratta: sono mesi che il governo sta ventilando proposte di legge per aumentare le possibilità di vigilare sui netizen. In rete non si intessono semplicemente dibattiti sulla vita segreta delle celebrità: in rete si organizza il dissenso.