“Sono stata accusata di essere responsabile della violazione del copyright senza che l’accusa dovesse provare che ne fossi consapevole (…). Questo non mi sembra giusto, questo mi dà la forza di lottare”. Così ha parlato mamma Jammie sulle pagine di P2P Net .
Jammie Thomas si è dimostrata risoluta, nonostante sul suo capo pesino l’ accusa di aver condiviso 24 file e una multa per 220mila dollari . Ha affrontato di petto la battaglia con l’industria dei contenuti, che sparge il terrore fra i netizen riversando solo sugli ISP americani decine di migliaia di richieste di subpoena .
Jammie, stupita di essere assurta ad eroina, confessa di non aver mai desiderato una tale popolarità , né di aver voluto cavalcare l’onda delle proteste contro l’industria dei contenuti per guadagnare supporto e attenzione a colpi di forum , blog e raccolte fondi . Desiderava piuttosto dare il buon esempio ai figli, insegnare loro a combattere per difendere i propri diritti, lesi soprattutto nel caso in cui si venga accusati di una colpa mai commessa, situazione non rara nei casi di di file sharing .
Se il dibattere in rete è via via sempre più fervente, fervida è la fantasia dei giornalisti nel caso di mamma Jammie, che hanno in numerose occasioni tappato i buchi in maniera sensazionalistica, abbozzando nei loro servizi “mezze verità, congetture o deliberate menzogne”. Jammie coglie l’occasione e la visibilità per fare chiarezza su qualche fraintendimento.
Ad esempio non c’è nessun appello in corso. Il processo è finito. Quello che Jammie sta facendo ora, al contrario di quanto riportato dalla stampa internazionale forse poco avvezza alle procedure dell’ordinamento statunitense, è una mozione post-processuale . Si tratta di uno strumento con cui si tenta di decostruire l’accusa sostenendone l’incostituzionalità. La strada è in salita ma Jammie persisterà nel suo tentativo di convincere i giudici che un indirizzo IP non possa in alcun modo identificare una persona .
Qualche rimpianto? Jammie spiega che avrebbe potuto cedere alle proposte di RIAA e accordarsi per un rimborso, che si sarebbe rivelato indubbiamente meno consistente della multa da 9mila dollari a brano. Tutto sarebbe stato meno complesso e meno rumoroso, ma le etichette l’avrebbero avuta vinta per l’ennesima volta.
È per questo che Jammie non intende agire come una vittima sacrificale immolata dalla RIAA sull’altare della deterrenza. È per questo che invita altre persone accusate a non chinare il capo di fronte all’industria dei contenuti: “Più persone decideranno di difendersi dalle accuse, più dispendioso sarà per la RIAA intentare queste cause, e saranno sempre meno le risorse che RIAA potrà impugnare per scagliarsi contro altri”.
Gaia Bottà