Lo smart working non è una cura: è un vaccino

Lo smart working non è una cura: è un vaccino

Lo smart working consente alle aziende di aggirare la terza ondata, evitando isolamenti che fermano interi uffici: questione di continuità operativa.
Lo smart working non è una cura: è un vaccino
Lo smart working consente alle aziende di aggirare la terza ondata, evitando isolamenti che fermano interi uffici: questione di continuità operativa.

In queste ore le ipotesi sul piatto lo dicono chiaramente: si sta andando verso ulteriori restrizioni per calmierare una curva dei contagi che rischia di farsi estremamente pericolosa. L’ipotesi non solo è avvalorata dai dati, ma anche dal fatto che le parti politiche precedentemente ostili ad ogni tipo di chiusura ora non lanciano più strali contro queste ipotesi. Ma per le aziende deve valere un discorso parallelo e differente, perché il lavoro è la base sulla quale possiamo costruire tanto una ulteriore dose di resilienza, quanto la necessaria base per la ripartenza.

La parola chiave è “business continuity“, ossia la capacità di progettare modalità operative tali da poter permettere all’azienda di operare a prescindere dalle difficoltà che possano insorgere a disturbo delle tradizionali modalità. La pandemia è – chiaramente – una di queste condizioni di disturbo e può esserlo al punto da interrompere completamente l’operatività di specifici uffici/funzioni.

Smart working per la business continuity

Lo dicono i dati: con l’avvento della “variante inglese” (in particolare), le possibilità di contagio sono notevolmente aumentate, soprattutto in luoghi chiusi ove le distanze e l’aerazione non possano essere garantite al 100%. Ne consegue che per gli uffici il rischio aumenta notevolmente, così come è successo nelle scuole. Se chiudere le scuole è stato un sacrificio gravoso ma necessario, chiudere le aziende avrebbe costi sociali ed economici non più sostenibili in molti settori. La scelta, laddove possibile, deve giocoforza essere quella dello smart working.

Le aziende che hanno interpretato lo smart working come una cura palliativa, uno shock temporaneo e necessario, non sono probabilmente ancora pronte allo switch. Ma credere nello smart working in modo più strutturale, in questa fase può restituire risultati immediati proprio per la maggior elasticità nel rispondere alle esigenze.

Lo smart working non deve dunque essere un qualcosa a cui ricorrere dopo l’insorgere di eventuali contagi, ma come modo per evitare che proprio la propria azienda possa diventare il centro di nuovi focolai. Il rischio, infatti, è che un intero ufficio possa trovarsi coinvolto in una situazione di isolamento, mettendo a rischio la continuità operativa dell’azienda e rendendo pertanto complesso il lavoro, il raggiungimento degli obiettivi, la capacità produttiva necessaria.

In questa fase si valuterà la maturità di ogni azienda di fronte a questo rischio: da una parte ci sarà chi si premunisce alternando le presenze e riducendo le occasioni di contagio; dall’altra ci saranno le aziende che sfidano la sorte nella flebile speranza di non dover fare i conti con una pandemia che sta riportando il paese verso le ipotesi di lockdown.

Non è questione di tecnologia, se non a valle di un problema che è anzitutto culturale ed organizzativo. Gli strumenti, le risorse cloud, la sicurezza: problemi fondamentali, ma soltanto all’interno di contesti che hanno maturato la giusta consapevolezza di quanto in questa fase lo smart working sia la miglior assicurazione di disaster recovery al cospetto di un pericolo esogeno come quello della pandemia.

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Pubblicato il
8 mar 2021
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