Facciamo il punto. Facciamolo come forma di autoanalisi collettiva, come presa di coscienza che potremo giudicare con il senno del poi. Facciamolo, perché in queste settimane la narrazione dominante già tratteggia alcuni trend che inseguiremo con assoluta certezza (troppa?) nei mesi a venire nel mondo business:
- meno viaggi di lavoro
- meno tempo in ufficio
- trasformazione digitale
L’assoluta certezza che viene dallo shock, ma che vista in prospettiva sembra essere più che altro il “non lo faccio più” del bambino capriccioso. Perché se ci si guarda indietro quante volte ci siamo detti che i viaggi di lavoro sono un onere evitabile? Quante volte si è preconizzato un abbandono della postazione fissa in favore di un lavoro più “agile”? Quante volte abbiamo usato la “trasformazione digitale” più come uno specchietto per le allodole che come vera filosofia professionale?
Eppure siamo di nuovo qui a promettere un “non lo faccio più” con occhi e parole pieni di convinzione. Siamo di nuovo qui a raccontarci che tutto è mutato, che andrà tutto bene, che ne usciremo cambiati, che è il momento di grandi rivoluzioni. Ce lo raccontiamo come forma di riposizionamento e di autoconvincimento, ma proprio queste due parole raccontano quanto instabile sia il nostro equilibrio e quanto fragile sia la nostra reale convinzione.
Meno viaggi di lavoro
Ce lo raccontiamo da tempo perché i capitoli di spesa relativi a questo modus operandi hanno raggiunto cifre eccessive. La realtà è che il viaggio di lavoro era utilizzato per fini specifici e non tutti sono disposti a rinunciarvi: sono una valida occasione di aggancio con un cliente, sono un segnale forte di presenza per un professionista, sono molte cose che una videochiamata non è in grado di trasmettere. Sono anzitutto un modus operandi e una forma mentis allo stesso tempo: ecco perché sono così resistenti nel tempo e nessuna digitalizzazione ne ha scalfito il ruolo. Mentre le comunicazioni aumentavano nei decenni passati, infatti, aumentavano anche i viaggi di lavoro, come se le due cose non fossero mutuamente sostituibili, ma si alimentassero a vicenda: ci vediamo domani e dopodomani ci aggiorniamo in call, così il giorno successivo firmiamo via mail e l’affare è concluso.
Ora siamo qui a rinnovarci la promessa: niente viaggi di lavoro: ci pensa Meet, sfruttiamo Teams, e poi c’è Zoom. Ma non c’è verso: la fisicità aveva, ha e avrà un ruolo ingombrante, così come le rendite di posizione che si porta appresso, i canoni linguistici che ha fatto propri, la prossemia, il “giacca e cravatta”, la valigetta dei documenti in mano, il biglietto da visita in tasca. Ci avete mai pensato? Che fine farebbe il biglietto da visita?
Ecco perché cambiare è tanto difficile: perché scardina convinzioni estremamente radicate. Fin quando non ci sarà piena consapevolezza di quanto fossimo aggrappati ad aspetti inutili, e fin quando non saremo pronti a cambiare quei cardini a cui sono ancorati pratiche quotidiane e metri di giudizio, non saremo pronti a cambiare. E torneremo quindi a prendere un treno o un aereo laddove qualche scambio online avrebbe potuto svolgere medesima funzione.
Meno tempo in ufficio
Aneliamo allo smart working, ma in realtà sono ben poche le aziende, peraltro di grandi dimensioni, pronte a conservarne le dinamiche anche in fase post-crisi. I motivi sono quelli già indicati: c’è una fitta trama di pratiche, nozioni, esperienze e principi, tutti annodati in tessuto che rappresentato dalla cultura aziendale, che tendono ad autoconservarsi. Nulla di male, nulla di deleterio, semplice inerzia conservatrice più e più volte verificata in passato di fronte al cambiamento. Una reazione uguale e contraria del tutto connaturata alle pulsioni umane, insomma.
Ma ora che il mercato propone soluzioni software sempre più avanzate, ora che il cloud si è fatto solida realtà, ora che il digitale mette in campo arsenali sempre più potenti, un nuovo interrogativo si impone: quando, dove, come e perché l’ufficio ha ancora motivo di esistere? Ancora una volta, non si tratta di fare sostituzioni complete perché la verità non sta né su un polo, né su un altro: l’ufficio ed il lavoro remoto hanno entrambi grandi vantaggi e gravi distorsioni, in entrambi i casi gravanti tanto sul singolo quanto sulla società (oltre che sull’azienda). Anzi, chi ritiene il lavoro da remoto la panacea di tutti i mali si prepari a sonore disillusioni: vecchie battaglie per i diritti del lavoratore si solleveranno presto in difesa di confini che sembravano scolpiti nella pietra prima di tutto ciò.
Ecco perché la ricetta ibrida del lavoro agile, della promiscuità tra le possibilità, appare come la prospettiva più promettente. Decade, però, l’idea tradizionale dell’ufficio: non è più un luogo dell’Essere – ove il dipendente occupa un tavolo proprio, un cassetto proprio, un computer proprio – ma un luogo del Fare – ove il dipendente è di passaggio, occupa lo spazio più confacente con le necessità del momento, tesse i contatti necessari e poi si dilegua. L’ufficio non è più l’hub ultimo e definitivo dell’operatività, ma luogo di incontro che ad un certo punto del flusso di lavoro sopperisce alla necessità di tirare le fila del discorso, riaccentrare le procedure e far convergere le varie funzioni coinvolte.
Per questo si parla di modalità “smart”: poiché più intelligente, meno ottusamente adagiata su vecchie pratiche che non hanno più motivo d’essere. E si metta da parte chi contesta che ciò non sia applicabile ovunque: si tratta di una ovvietà che non merita approfondimenti. Semmai bisogna porsi la domanda contraria: siamo certi che in quel lavoro nel quale si ritiene assodata l’impossibilità di operare almeno parzialmente con altre modalità non sia invece possibile ottenere l’impossibile?
Quando cambiare è possibile, non vedere il cambiamento è una colpa, mentre cambiare è una scelta. L’ufficio, oggi, diventa una scelta: esistono opzioni nuove, se ne hanno strumenti e consapevolezza, dunque è il momento di valutare se i costi di affitto, riscaldamento, attrezzatura, pulizia, sanificazione, sicurezza e quant’altro siano ancora utili al raggiungimento della mission aziendale o se medesimi capitali possano essere meglio monetizzati con altri investimenti. Scegliere di abbandonare l’ufficio non è sempre la scelta giusta, ma non porsi la domanda è sicuramente l’approccio sbagliato.
Ci chiederemo poi quanto le riunioni da remoto fossero migliori di quelle in presenza, con i loro riti, i loro ritardi, le loro abnormi perdite di tempo, la loro scarsa efficacia. Ce lo chiederemo poi, perché come sempre non basta sostituire una pratica ad un’altra per risolvere i problemi: occorre imparare ad usare bene tempi e spazi, semmai.
Trasformazione Digitale
Eccola: ecco la bandiera che più ha sventolato sul confine tra il terreno del business e quello della digitalizzazione. Ecco il vessillo su cui le due sponde si sono incontrate spesso, ma raramente capite. La trasformazione digitale è qualcosa di semplicemente ineludibile, ma sarà qualcosa di effettivamente praticabile solo quando la smetterà di diventare un Fine per consacrarsi definitivamente ad essere Mezzo.
I principi cardine della digital transformation sono ormai noti ai più, ma guardare a quest’ultima è sempre più simile al guardare il dito invece che la Luna. Oltre questa fase di passaggio necessario, ineludibile e quasi scontato, c’è infatti un mare di opportunità da cogliere giorno dopo giorno, ora dopo ora, tra le maglie della velocità che la digitalizzazione consente e tra le trame di una elasticità che il non-digitale può soltanto sognarsi.
Come in ogni fase di cambiamento – e succederà ancor di più ora, momento in cui il cambiamento è una sorta di tsunami che stiamo guardando arrivare ormai impossibilitati a fuggire – la mutazione è dettata più da una selezione che non da una evoluzione. L’evoluzione è infatti afferente alle singole realtà, mentre la selezione è afferente alla collettività delle imprese. Col senno del poi misureremo facilmente la “temperatura” della trasformazione digitale in questa fase perché sarà facile capire chi è stato in grado di nuotare e chi no. Semplicemente.
Ecco perché ad oggi diventa futile vaticinare dei cambiamenti, profetizzare orizzonti e predicare innovazione: chi ha orecchi per intendere, ormai ha inteso. Per tutti gli altri, il peggior ostacolo in questa fase post-emergenziale non sarà l’emergenza in sé, ma sarà il sé in emergenza.