Una interessante interpretazione delle norme fornita dall’Agenzia delle Entrate su specifico interpello fuga ogni dubbio in relazione alla tassazione gravante sugli italiani che in occasione della pandemia sono tornati a casa approfittando della possibilità di operare in smart working. Si tratta di cittadini italiani residenti all’estero che, proprio in occasione del lockdown e dei periodi successivi, sono rimasti nel nostro paese per lungo tempo per ovviare ai problemi della pandemia. Per tutti questi la situazione è ora chiara: dovranno pagare l’IRPEF in Italia.
Smart working e IRPEF
A spiegare la questione è l’IPSOA, secondo cui ci sarebbe un limite specifico in termini temporali affinché venga a scattare questo obbligo: qualora lo smart working dall’Italia sia durato più di 183 giorni, l’IRPEF andrà versata al nostro Paese.
Secondo la normativa una persona fisica si considera fiscalmente residente in Italia se risulta iscritta nelle Anagrafi comunali della popolazione residente; se ha nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile. Tali requisiti sono tra loro alternativi e non concorrenti: sarà pertanto sufficiente il verificarsi di uno solo di essi affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia.
Sebbene un cittadino possa essersi cancellato dall’Anagrafe della popolazione residenza, “il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi“. Ciò porta molti cittadini italiani a veder configurato il proprio “centro principale degli interessi” in Italia sebbene tipicamente residenti e domiciliati all’estero. Il discrimine è fissato: “183 giorni in un periodo d’imposta” rende lo smart working “fiscalmente rilevante” in Italia e quindi origine dell’obbligo di versamento dell’IRPEF.