“Sono in smart working quasi da un anno… non ce la faccio più“: così una cittadina milanese intervistata nei giorni scorsi su SkyTG24 a proposito del ritorno in zona rossa della Lombardia. Ma cosa c’è esattamente dietro quel “non ce la faccio più”? Mancanza di socializzazione, mancanza di relazioni, mancanza di stimoli in certi casi. Ma una ricerca condotta da OpenText suggerisce anche qualcosa di ulteriore, qualcosa di meno afferente la sfera sociale e di maggiormente inserito nel solco delle pratiche proprie dello smart working.
Partiamo da un assunto: quello vissuto nel 2020 è nella maggior parte dei casi “home working” e non “smart working”: la differenza sta nel livello di libertà sperimentabile, isolando i lavoratori in casa invece di consentire a questi ultimi la miglior commistione possibile tra ufficio e abitazione. Al netto di questa discrasia, è evidente come la proiezione improvvisa del lavoro fuori dal contesto di ufficio abbia creato distorsioni che spesso ricadono sulla persona in primis e sulle performance aziendali in seconda battuta.
Se da un lato i professionisti si sono dimostrati disposti ad adottare strumenti diversi, dall’altro si stanno delineando nuove sfide, poste dalla necessità di gestire account e fonti di informazioni molteplici. Le aziende devono quindi saper riconoscere questo fenomeno, cercando soluzioni che riducano le complessità e semplifichino i processi, per offrire esperienze di lavoro in grado di riflettersi positivamente anche sui livelli di produttività
Antonio Matera, Regional Sales Director OpenText Italy
Smart working, rischio burnout
In termini informatici lo si potrebbe forse descrivere nei termini di un “buffer overload”: indica un sovraccarico relativo delle informazioni in entrata, con una evidente difficoltà di gestire i singoli flussi. In termini psicologici lo si è spesso descritto invece come “burnout“, una sorta di esaurimento da sovraccarico che giunge poco alla volta e che logora nel lungo periodo.
Quasi 3 italiani su 4 (74%) concordano sul fatto che le fonti da controllare ogni giorno siano aumentate negli ultimi 5 anni: dalle email alle notizie, dai social media ai server aziendali, tanto che quasi il 22% del campione utilizza in media più di 10 account ogni giorno (email, app, piattaforme di condivisione, ecc). […] solo il 36% dei professionisti è in grado di limitare a 3 o meno il numero di risorse cui accedere per completare un progetto lavorativo
Troppe password, troppi account, troppi “luoghi” ove attingere le informazioni necessarie: troppa dispersione di attenzione e di tempo, insomma, con il rischio di disperdere le risorse personali in flussi incontrollabili. Difficile capire in che misura questo problema sia relativo alla natura del lavoro da remoto e quanto ad una semplice disorganizzazione. Se il lavoratore non si trova su una struttura organizzata e con a disposizione una semplice gestione delle risorse a cui attingere, il fatto che sia fuori ufficio tende a responsabilizzarne le azioni ed a pesare maggiormente a livello di stress: una migliore organizzazione consentirebbe un accesso più rapido a risorse e comunicazioni, facilitandone il compito e riducendo le distanze rispetto ai colleghi:
Se lo smart working fosse adottato a lungo termine, le difficoltà per gli italiani sarebbero di natura sia organizzativa, sia relazionale. A destare le maggiori preoccupazioni per quasi 2 professionisti su 10 sono l’accesso a sistemi e file aziendali, ma anche i metodi di condivisione delle informazioni con i colleghi (16%): oltre la metà (54%), infatti, ammette di aver condiviso file aziendali almeno una volta tramite tool personali – molto più di quanto accade ai colleghi spagnoli (22%), britannici (20%) o francesi (17%).
La mancanza di adeguate motivazioni è qualcosa che, pur se relativo all’isolamento, non è tanto legato al tema dell’organizzazione dello smart working, quanto alla gestione delle risorse umane. La distanza ha infatti aumentato la solitudine, ponendo in evidenza anche le capacità automotivazionali e le dinamiche di squadra con cui si può condurre una azienda. Laddove il merito non trova la giusta rispondenza ed il fattore fiduciario non riesce ad attecchire, i problemi sono destinati a moltiplicarsi: ecco perché l’aspetto relazionale deve essere posto al centro oggi come non mai, in qualità di asset fondamentale per una azienda distribuita su più location, che vede i rapporti “remotizzati” e le dinamiche collaborative potenzialmente sfilacciate.
Se a tutto ciò si aggiunge che il 16% degli intervistato da OpenText non riesce più a staccare perché sommerso da questo overload informativo e operativo, allora ecco che il corto circuito è dietro l’angolo. Alla storia passerà forse come un effetto collaterale della pandemia, ma le cause andranno cercate altrove: non nelle statistiche sanitarie, ma tra le maglie dell’organizzazione aziendale.