Con il prolungamento dello stato di emergenza ed il nuovo giro di vite impresso dall’ultimo DPCM emanato, lo smart working viene semplicemente prorogato al 2021 come risposta emergenziale ad una crisi sanitaria destinata ad aggravarsi. A conti fatti la fase “temporanea” giunge praticamente alla soglia dell’anno di durata: era il 1 marzo 2020 quando venne introdotta la formula semplificata di accesso allo smart working (con scadenza ad oggi, 15 ottobre) ed ora il tutto viene prorogato come minimo a febbraio 2021.
Ma c’è da starne certi: non basterà, o almeno non sarà ancora il momento di mettere da parte lo smart working. Anzi, forse sarà il momento di farci su una riflessione più seria.
Smart working oltre l’emergenza
Quel che si va dicendo da più parti è che lo smart working sia a questo punto destinato a rimanere come forma stabile di organizzazione in molte aziende. Considerando come l’adozione di questa forma agile di lavoro sia una questione culturale prima ancora che organizzativa, non è chiaro cosa possa supportare tali certezze. Quel che è chiaro, invece, è che l’uscita dalla crisi sanitaria non farà altro che introdurci ad una crisi economica che, oltre alle ferite accumulate in questi mesi di difficoltà, metterà in campo una “nuova normalità” nella quale gli equilibri tradizionali saranno spesso eradicati. Nuove aziende emergeranno, vecchie aziende falliranno: in tutto ciò lo smart working sarà uno strumento di lavoro come tanti altri, utile a facilitare alcune modalità di espletamento delle proprie mansioni e al tempo stesso fulcro di nuove rivendicazioni (sindacali?) circa i diritti dei lavoratori.
Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.
La situazione su questo fronte è per il momento semplicemente congelata. Le scadenze di oggi, 15 ottobre, sono procrastinate al 31 dicembre in parallelo allo spostamento nel tempo dell’orizzonte dell’emergenza. Lo smart working sarà un modo per ridurre i carichi sui trasporti pubblici, sarà un modo per garantire assistenza ai figli in caso di isolamento, sarà un modo per facilitare il distanziamento individuale in ufficio. Più che uno strumento aziendale, quindi, è uno strumento sociale di abnorme utilità per garantire al lavoro ed alle famiglie di poter portare avanti i propri ritmi.
E poi cosa succederà? In primavera ci si troverà costretti a sedere ad un tavolo di concertazione per capire cosa sia successo nel frattempo, cosa avranno detto i dati e cosa potrà offrire lo smart working al mondo del lavoro di domani. Tutte le parti saranno chiamate a contribuire a questo passaggio: politici, sindacati, confederazioni e giuslavoristi saranno chiamati a discutere, improvvisamente, del domani. Per molti versi sarà uno sprone importante per un’Italia che troppo a lungo ha discusso del mondo del lavoro seguendo i paradigmi di un passato ormai ampiamente archiviato.
Il regime attuale scade il 31 dicembre 2020. A partire dal 1 gennaio 2021 le aziende dovranno cercare di stipulare accordi individuali con i lavoratori per rientrare in quello che era il regime antecedente a partire dal 1 febbraio. Delle due, una: o lo Stato lascerà la situazione in una sorta di laissez-faire spesso caro all’impresa, oppure interverrà in anticipo senza arrivare alla scadenza. Ma la terza via sembra essere ancora la più probabile, poiché legata ad una inestricabile necessità: si arriverà ad un nuovo rinvio, portando la situazione verso l’estate e – chissà – traslando lo smart working direttamente nei programmi politici della prossima campagna elettorale.