Milioni di pagine consegnate alla memoria di Internet Archive. Geocities ormai è questo: un capitolo della Storia del World Wide Web , un capitolo chiuso e consegnato alla Storia stessa per trarne lezioni e conseguenze. Il suo proprietario, Yahoo!, ha deciso che questo servizio – il free hosting – era tra quelli che non valeva la pena tenere in vita nel corso della propria ristrutturazione aziendale. Nessuno ha voluto pagare per Geocities: d’altra parte, perché avrebbe dovuto?
Geocities è e resterà l’esempio di come la prima autentica “rivoluzione industriale” di Internet abbia stravolto le dinamiche e il rapporto di forza tra le diverse tipologie di servizi e offerte. Un tempo l’hosting era un bene di prima necessità, per così dire, e i 15 mega (già un traguardo invidiabile all’epoca in cui venne lanciato) – piuttosto che lo spazio illimitato garantiti in questi anni dal più celebre hoster gratuito presente in Rete – costituivano un bocconcino prelibato per i palati del pubblico. In un certo senso, quelle homepage personali erano l’antenato e il precursore dello User Generated Content che per un breve periodo è andato tanto di moda anche nel Web 2.0.
Tuttavia, il lancio di Geocities era avvenuto in era “pre-Google”: un’era che oggi, col senno di poi, si può tranquillamente definire pre-industriale, mancando allora un autentico mercato pubblicitario per lo spazio in Rete e dunque impedendo la formulazione di un modello di business organico che fosse in grado di sostenere il servizio stesso. L’avvento dell’advertising contestuale avrebbe (ed ha) cambiato tutto: oggi i social network ragionano in termini di raccolta pubblicitaria per formulare le proprie previsioni di crescita, ed è in quest’ottica che YouTube piuttosto che Facebook si dicono sicuri del fatto loro per il futuro.
Lo stesso non poteva dirsi di Geocities: l’idea, quando il traffico iniziò a crescere vertiginosamente, fu quella di introdurre servizi premium a pagamento per garantire più feature a chi avesse deciso di aprire i cordoni della borsa. Ma, come molto spesso è accaduto su Internet, i servizi a pagamento non sono mai decollati : anzi, come ricordato pochi mesi or sono su queste stesse pagine, finirono per allontanare inevitabilmente il pubblico degli appassionati e dei “casual webmaster” dal free hosting per eccellenza. Se qualcosa bisogna pagare, si saranno detti in molti, tanto vale farlo altrove potendo scegliere quanto e cosa ottenere in cambio: oppure, nel web 2.0, ci sono le pagine personali dei social network che non sono tanto diverse dai primi rudimentali esperimenti con l’HTML dell’era Geocities.
La fine di Geocities, in qualche modo, segna pure il passaggio definitivo ad un nuovo concetto di pubblico della Rete: chi si arrabattava con le scritte “under construction” con tanto di GIF animate era un pioniere , che metteva mano al codice e creava strutture con i frame (oggi spariti e deprecati negli standard moderni dell’HTML) in cui infilava le proprie passioni. Gli “shrine”, autentici templi dedicati alla passione del webmaster pioniere, erano la tipologia di website più frequente tra gli utenti Geocities: erano il risultato di uno sforzo notevole nel reperire informazioni e materiali sul soggetto a cui era intitolato lo spazio, un’operazione difficoltosa nell’era del Web senza i motori di ricerca trovatutto odierni , e che spesso finivano nei segnalibri altrui grazie al passaparola o ai webring.
Tutte iniziative, le mailing list e i webring , che oggi la stragrande maggioranza dei navigatori manco sanno cosa sia: non è questione di elitismo o sciovinismo, è la realtà di un Web in cui l’homepage su Geocities è stata sostituta dal proprio profilo su MySpace (autentico erede del ruspante kitsch del suo predecessore) o su Facebook (paragonabile per pervasività, specie nel mercato italiano). Ma sono strumenti diversi, user friendly: sono strumenti recintati, in cui le possibilità degli utenti sono costrette dai limiti imposti dagli sviluppatori della piattaforma . Sono strumenti dove non c’è più spazio per quelle trovate in Javascript che tenevano svegli nottate intere, per trovare il miglior effetto possibile per il mouseover sui tasti che conducono alle diverse parti del sito.
Può sembrare massimalista, ma la fine di Geocities coincide con l’affermarsi di modelli di business come quelli di Facebook e YouTube: tutte piattaforme entro le quali pubblicare i propri contenuti (e non quelli altrui) all’interno di “gabbie” predefinite, alla portata di chiunque. E accanto a questi spazi, quelli onnipresenti e necessari della pubblicità, che paga per lo spazio e la banda. Geocities non aveva un modello di business, e nessuno ha voluto pagare per tenerlo in vita : allo stesso modo, le uniche idee vincenti in Rete sul piano dei bilanci sono quelle che fanno affidamento sulla pubblicità pagata da qualcuno per tenere in piedi il business.
La pubblicità l’ha “inventata” Google qualche anno fa, e grazie all’advertising contestuale la startup search di Mountain View si è trasformata in un colosso multinazionale da (letteralmente) miliardi di dollari. La stessa pubblicità tiene oggi in piedi, o almeno si spera lo faccia, altre avventure come i già citati Facebook, YouTube, MySpace, piuttosto che l’infinita galassia di siti che offrono notizie e approfondimenti su Web: Geocities non sapeva cosa fosse la pubblicità, e ha creduto di poter proseguire la sua parabola affidandosi alle sottoscrizioni. Non ha pagato la scelta, non hanno pagato gli utenti .
Oggi su Internet ci sono milioni di persone in più, molti milioni di persone in più di quante ce ne siano mai state nell’era Geocities. Ma sono diverse: sono cittadini della Rete a tutti gli effetti, sono utilizzatori finali di strumenti confezionati per loro da imprenditori della Rete che badano al sodo e al business plan quando si producono nei propri sforzi. Internet oggi è quella dei 45 miliardi offerti da Microsoft per Yahoo!, non è più quella degli shrine su Geocities pieni zeppi di materiale dedicato a un’eroina manga piuttosto che a un gruppo musicale (e quanto alla provenienza lecita o illecita di tutto quel materiale, si potrebbe stare a discutere per giorni e giorni).
Internet è cambiata , gli strumenti e gli obiettivi di Internet sono cambiati, chi tira le fila e chi popola Internet è cambiato. Prendiamone atto e salutiamo Geocities: e con lui tutta una fetta di occasioni per una Rete diversa che sarebbe potuta essere, ma che non sarà mai più. E adesso torniamo ad occuparci di trimestrali: che quelle ormai, più che le idee originali, sono il pane quotidiano di chi racconta il Web. Quando si parla di Twitter, d’altronde, chi è che discute ancora l’idea? Quella è data per scontata: piuttosto, quando tireranno fuori un modello di business sostenibile quelli di San Francisco? Questo è quello che tutti vogliono sapere: o almeno gli addetti ai lavori. Il resto del Web, il Web lo usa e basta: senza farsi e fare troppe domande.
Luca Annunziata