Davide Tagliapietra ha poco più di trent’anni anni e disegna imbarcazioni. Nel suo curriculum ci sono lavori importanti, tra cui diversi scafi da competizione e gli interni di +39, protagonista della trentaduesima Americàs Cup. Ha un socio, che lavora ad Amsterdam, e una azienda sua, la ST Yachts. In compenso non ha un ufficio privato, Davide, né uno studio nella propria casa milanese. Perché la sua attività la svolge in un coworking.
A occhio e croce, Davide è in buona compagnia. Basta infatti dare un’occhiata ad un wiki dedicato per scoprire come negli Stati Uniti ci siano ormai decine di realtà di coworking attivi, e come realtà analoghe si stiano moltiplicando ai quattro angoli del mondo.
Ma cosa sono esattamente, questi “coworking”? Si tratta di spazi equipaggiati – con scrivanie, sale riunioni, connessione di rete – che vengono affittati a professionisti e freelance per periodi più o meno prolungati. Non sono come i tradizionali studi associati, o semplici affittacamere: ci si può passare un anno come un’ora, nei cowo, e ci si incontrano professionalità molto eterogenee. C’è chi parla di “atmosfera” dei coworking, e persino chi si spinge a vedere in essi una delle forme emergenti dell’organizzazione contemporanea, al punto di incrocio tra una casa, un internet café e l’ufficio vecchia maniera.
Sulla home dello wiki si legge: “il coworking è uno spazio di collaborazione e socializzazione cafe-like per sviluppatori, scrittori e lavoratori indipendenti”. Detto così sembra interessante. Resta da capire però cosa ci sia di concreto, dietro alle etichette ed alle esperienze dei singoli. Proviamo a capirlo con una serie di testimonianze dal campo.
Il primo cowo di cui si ha notizia è stato creato nel 2005 da Brad Neuberg, un programmatore informatico della Bay Area. Obiettivo di Neuberg, racconta l’ International Herald Tribune , era aggirare i limiti “incrociati” della vita d’ufficio e di quella casalinga. “Potevo avere un lavoro fisso – con una struttura ed una comunità – oppure essere free lance, godendo di indipendenza e libertà. Ma io volevo entrambe” spiega al quotidiano statunitense. “Perché mi piace il lavoro individuale, da libero professionista, ma ogni tanto mi fa bene anche avere delle persone intorno”. E così ha affittato quattro grandi stanze in una ex fabbrica di cappelli e ci ha costruito dentro la “Hat Factory”, il primo coworking della storia.
Adesso, ovviamente Brad lavora lì, ma intorno a lui ci sono “enne” postazioni popolate ogni settimana di facce diverse: designers, freelance, consulenti ed imprenditori di passaggio nella Baia. Alcuni pagano i 200$ di affitto mensile e “bloccano” una scrivania per mesi, altri si fermano magari per un’ora, nell’attesa di un appuntamento o del volo di ritorno a casa. Sul palco della Hat Factory si recita a soggetto, e gli attori cambiano di giorno in giorno.
Nei mesi successivi l’esempio di Neuberg è stato seguito da altri imprenditori e liberi professionisti – prima in California e poi in altre zone degli USA – ed oggi negli States si contano oltre 100 coworking attivi (Fonte: cowo wiki ). Ma non di soli Stati Uniti vivono i coworking: sulla cartina globale del movimento, contenuta all’interno dello wiki, si contano tra gli altri 62 cowo in Europa, 5 in Cina, 9 in Sudamerica.
In Italia, le esperienze di cowo conosciute sono quattro: due a Milano, ed una rispettivamente a Roma e Bologna. Nel caso di MonkeyBusiness, uno dei due spazi milanesi, l’idea di creare un cowo è nata al punto di incrocio tra curiosità e razionalità imprenditoriale. Massimo Carraro , il fondatore, la racconta così a Punto Informatico : “Alcuni dei soci della nostra agenzia pubblicitaria se n’erano andati ed avevamo un surplus di spazio. Navigando in rete abbiamo trovato diversi riferimenti al cowo ed abbiamo pensato: perché non proviamo anche noi? Dopotutto gli step da fare non erano poi così tanti…si trattava solo di riorganizzare un’ala dell’ufficio e riattare le postazioni. E poi potevamo cogliere due piccioni con una fava: avere persone interessanti in ufficio, ed anche qualcuno con cui condividere le spese”. Di lì a creare un cowo vero e proprio, il passaggio è stato breve.
Lo spazio ha aperto nello scorso aprile, e da allora ha incontrato un successo pressoché costante: “Per un buon periodo, più o meno fino alla fine dell’estate 2008, abbiamo dovuto tenere una lista d’attesa per le nostre 12 postazioni”, ci spiega Carraro. “Poi il flusso si è stabilizzato, ma nel complesso stiamo continuando a conoscere un buon successo”.
Un po’ diversa la storia del coworking di Roma, nato da una costola della rivista 7thFloor come “incubatore di cervelli”. Dice in proposito a Punto Informatico il fondatore Andrea Genovese : “Visto che siamo un progetto editoriale open il cui principale scopo è quello di condividere conoscenze ed esperienze sui temi del business online, della comunicazione digitale, dell’experience design, è stato un passo naturale per noi aprire un cowo. Avevamo uno spazio molto grande nel cuore di Roma dove già passavano molti creativi, sviluppatori, giornalisti, esperti di internet. E allora abbiamo pensato di fare rete tra di loro”.
Ma cosa offrono, in concreto, i coworking? Tutti i “pacchetti base” prevedono l’attribuzione di uno spazio di lavoro personale – con sedia, scrivania e magari una porzione di armadio -, la possibilità di impiegare luce, gas e rete internet, l’accesso libero ad aree comuni come cucinotti, open space, divani et similia.
Detto questo, i servizi ed il grado di strutturazione variano in modo considerevole da caso a caso. Alcuni cowo non possiedono neppure una sede fisica autonoma, e si riuniscono in modo più o meno rapsodico all’interno di internet café o case private . Altri invece si presentano con configurazioni stabili, con orari e uffici propri e tutto il resto.
In alcuni casi i loro format si discostano di poco da quelli dei Business Center tradizionali – come alle Sandbox Suites di San Francisco, dove i coworkers si vedono assegnati soltanto un cubicolo e l’accesso al thermos del caffé – mentre in altri vengono proposte sperimentazioni più o meno avanzate lungo le frontiere del mercato del lavoro. Ed al Cubes and Crayons di Menlo Park, Calif., dove la popolazione è formata in larga parte di imprenditrici e free lance donna, il pacchetto standard comprende anche un servizio completo di child care – con tanto di fasciatolo e sala giochi – ospitato in un’ala attigua dello stesso palazzo.
Anche le tariffe sono variabili. I differenziali hanno spesso a che fare con la collocazione del coworking: una membership mensile con accesso di rete illimitato all’Hub di Londra costa 295 sterline (circa 450 euro), mentre per una postazione al Rootspace di Beirut se ne pagano circa 50. Presso MonkeyBusiness, il coworking milanese dove lavora il nostro Davide Tagliapietra, il canone mensile per una scrivania è di 200 euro (250 se si vuole affittare un computer), ma sono previste anche quote parcellizzate per periodi più brevi (affitto a settimana o a giornata) e forfettizzate per quelli più lunghi.
Al di là di prezzi, prese e biberon, tuttavia, la vera cifra distintiva dei coworking è data dalla loro precipua “atmosfera”, che si vuole informale e collaborativa. Molti di coloro che approdano nei cowo non sono mossi solo dalla ricerca di postazioni comode e a buon mercato, ma anche dal desiderio di condividere spazio ed idee con persone potenzialmente affini. “Il coworking punta a creare un ambiente collaborativo per freelance e lavoratori indipendenti. L’idea è quella di avere uno spazio la cui atmosfera consenta alle persone che hanno delle affinità di incontrarsi, alimentandone la produttività e la creatività” si legge ad esempio in uno dei blog . E Andrea Genovese di 7th Floor dice: “Nel coworking si va per cercare dei soci part time”, dei collaboratori “di idee e di entusiasmo”. “Si tenta di stare nel flusso delle cose, come fosse una sorta di facebook dei propri spazi professionali!”.
Accanto alla collaboratività, poi, l’altro elemento più spesso additato dagli attori per descrivere l’appeal dei cowo è la loro duttilità operativa. Intervistato sul blog di coworking Milano, ad esempio, Davide Tagliapietra racconta: “Qui ho una postazione per lavorare flessibile, con tutti i servizi di cui ho bisogno per la mia attività. Ma la flessibilità che il cowo mi offre è anche di più: posso adattare le mie esigenze di mese in mese, decidendo se e come far crescere la mia azienda. Una duttilità che è difficile da trovare all’esterno”.
Insomma le soluzioni in coworking piacciono perché sono flessibili, poco impegnative dal punto di vista burocratico, e consentono di fare rete con facilità. Ed anche per questo riescono ad attirare una popolazione sempre più ampia e variegata. Non si tratta più soltanto dei programmatori e dei technogeek che affollavano le sale della Hat Factory e degli altri cowo dei primordi. No. Adesso dentro ai cowo ci puoi trovare professionisti di ogni tipo: architetti, consulenti d’impresa, attivisti politici, talvolta persino scrittori . Dice ad esempio Massimo Carraro di MonkeyBusiness: “Da noi sono passate persone molto diverse tra loro e – quel che non ci saremmo aspettati – non tutte provenienti dal mondo della rete. Certo, ci sono stati programmatori ed esperti informatici; ma accanto a loro abbiamo avuto anche giornalisti, esperti di pubbliche relazioni, architetti”.
In altre parole, i cowo sembrano intercettare le esigenze di una porzione non irrilevante dell’attuale mercato del lavoro. Precisamente, le esigenze di quelli che un recente articolo dell’Economist chiama “nomadic workers”: lavoratori che si muovono lungo e fuori i confini delle organizzazioni formalizzate, confrontandosi con un mercato sempre più fluido e destrutturato come collaboratori, free lance, indipendenti.
A questi nomadi contemporanei, gli spazi cowo offrono tutto quello di cui hanno bisogno: una scrivania, una buona wireless, la possibilità di sfuggire per qualche ora (o magari per qualche mese) all’isolamento del lavoro casalingo. O, per dirla in parole più semplici, un pezzetto di identità.
Giovanni Arata