Ogni qualvolta una azienda decide di investire sulla vendita online, deve fare i conti con la visibilità che riuscirà ad ottenere, cercando modalità efficienti per drenare utenti, costruire community e fidelizzare i clienti. Ecco perché l’evoluzione del principale motore di ricerca, Google, è fondamentale: rappresenta una parte fondamentale del business plan di qualsiasi azienda che abbia bisogno di una presenza online per farsi trovare e per proporre i propri prodotti.
Una ricerca firmata The Markup (qui i risultati su GitHub) instilla un dubbio che da tempo ha preso piede: sulle SERP non c’è più spazio e questo perché Google, poco alla volta, ha aumentato la quota di risultati avocati a sé ed ha compresso gli spazi contenenti link verso l’esterno.
Come è cambiato Google
L’analisi di The Markup non fa emergere novità particolari, ma ha il merito di mettere in fila in modo evidente ciò che è successo negli ultimi 15 anni. Quella che era la pagina dei “10 link blu”, infatti, oggi è qualcosa di molto differente: tra pubblicità in evidenza, risposte dirette, correlati e “knowledge panel”, la ricerca misura in un 41% il quantitativo di pagina mobile che Google riserva per sé. La conseguenza è del tutto chiara: l’utente tenderà a rimanere su Google invece che uscire verso un altro sito.
Ciò ha due effetti diretti molto pesanti: da una parte v’è una compressione estrema degli introiti pubblicitari (e non solo) che un gruppo terzo è in grado di raccogliere; dall’altra v’è una moltiplicazione degli introiti di Google, con un fattore “x 5” identificabile come miglior motivazione per le scelte strategiche del gruppo.
Spesso, così come successo nell’interazione tra Google e il mondo delle news, da Mountain View si osserva come chiunque abbia il potere dell’opt-out, potendo tranquillamente rinunciare ad offrire le proprie informazioni al motore. Ciò però chiaramente non è una strada percorribile, poiché significa a rinunciare alla quota di traffico ottenibile: rinunciare a Google significa uscire dal mercato (Google detiene ad oggi il 95% delle ricerche mobile a livello globale, lasciando solo le briciole alla concorrenza). Su questa frizione sono nati nel tempo i primi processi antitrust, dai quali Google è tuttavia fin qui uscito sostanzialmente indenne.
Il report di The Markup riporta altresì lo statement ufficiale della portavoce Lara Levin, secondo cui la ricerca sarebbe fallace, poiché basare l’indagine su query selezionate da Google Trends aumenta la possibilità di risultati farciti di posizionamenti Google ottenendo quindi una fotografia non realistica della situazione effettiva (giustificazione in parte opportuna, in parte minata dal medesimo bias contrario: ha più senso analizzare le SERP più dense di traffico che non quelle residuali). Inoltre i risultati offerti sulle SERP sarebbero compilati sulla base di precise valutazioni di affidabilità. Se poi il discorso va alle parole di Larry Page, che nel 2004 sosteneva virtuoso l’approccio di un motore che distribuisce traffico, Levin ricorda come il mondo sia nel frattempo cambiato. Come darle torto, del resto.
Il 41% di spazio in meno
La questione è destinata a restare aperta. Google, come Facebook e ogni altra piattaforma, tende naturalmente a conservare per sé il tempo degli utenti, poiché il tempo è monetizzabile ed è un valore. La libera circolazione delle view non è un valore proprio dell’Internet di questi anni, mentre lo era in un’epoca meno matura del Web. Da più parti si nota come la perdita di quell’ingenuità di fondo abbia cambiato molto il profilo della Rete, ma c’è altresì chi vorrebbe, almeno in parte, recuperarne le caratteristiche migliori. La palla è in buona parte in mano alle istituzioni antitrust, le quali ragionano però in termini che non sono esattamente propri di una fattiva politica propositiva in cerca di modelli di business che creino vere sinergie e partnership tra motori e aziende esterne. Quel che non è dell’uno, è dell’altro. Ed ambo le parti tentano di tenere per sé quel che riescono a guadagnarsi.
L’indagine di The Markup ha il vantaggio di fotografare questa situazione, ricordando ad ogni azienda come la composizione di un business plan deve fare i conti anche con queste dinamiche. La visibilità non è più né scontata né un processo matematico in mano ad alchimie SEO: lo spazio sulle SERP che contano si è ridotto parecchio, dunque differenziare le fonti e migliorare i propri contenuti è il minimo che si possa fare all’interno di una strategia che deve essere sempre più consapevole, variegata, ricca e proficua. Laddove c’era il 100% di spazio, oggi ce n’è la metà; laddove c’era solo parte del pubblico, però, ora lo si trova quasi tutto. Le istituzioni penseranno a quel che è antitrust, il mercato penserà al resto.