Nei buoni e vecchi tempi andati, quando gli uomini erano uomini e si scrivevano da soli i propri device driver, i computer erano grossi, lenti e costosi e le connessioni di rete lentissime e costosissime, certi comportamenti erano vietati di per sé, e le pene per chi li violava erano naturali ed automatiche, come l’impiccare senza processo chi rubava il cavallo ad un cowboy.
Mandare una mail ad una lista con un allegato non necessario, troppo grosso o in un formato non comune, mandare una mail inopportuna, fuori tema, formattata male o frettolosamente, portava nella migliore delle ipotesi ad un coro di rimproveri e sberleffi, e nella peggiore ad essere inseriti nei filtri individuali di cancellazione automatica.
I Cowboy delle mailing list reagivano così, in maniera “naturale”, la selezione naturale funzionava e tutti erano contenti.
Anche quando qualcuno rispettava le norme “grammaticali” della Rete, fino ad avere meno di 5 righe di firma in fondo alla mail, poteva capitare che durante una discussione dicesse o si comportasse nel contesto in maniera non gradita da qualcuno o da molti.
Esistevano perciò i “killfile” locali in cui ciascuno poteva inserire, col famigerato comando “^K” (control + K), i mittenti dei messaggi a lui sgraditi, in modo tale che altri futuri messaggi non gli sarebbero mai più apparsi.
Se poi una persona diventava sgradita alla lista, ad una sua corposa maggioranza o al moderatore (se esisteva) il “kill” veniva eseguito a quel livello, ed il fracassone non poteva più postare in lista.
“Censura!” direte voi. In effetti lo era, come tecnicamente impiccare il ladro era omicidio. Però funzionava!
Oggi, purtroppo, Facebook e le comunità sociali in generale permettono a chiunque ogni tipo di sguaiataggine e violazione della privacy a danno di altri, senza possibilità pratica di reazione e con memoria infinita delle informazioni inopinatamente fornite.
Qualche tempo fa una collega, anche lei professionista dell’IT, dopo aver scattato una foto di gruppo ad una riunione conviviale tra colleghi, annunciò con candida onestà che avrebbe senz’altro caricato la foto su una nota comunità sociale, ed anche taggato i presenti, a meno che non avessero chiesto di non essere taggati “…perché so che c’è chi non vuole”.
Se stessimo parlando di un atleta, potremmo definire la performance “una prestazione sopra la media”, visto che la grande maggioranza dei “colleghi di comunità” non ci avrebbe nemmeno pensato.
Ma essere ben sopra la media non è una giustificazione, ed in certi casi può essere considerata un’aggravante.
Perché la nostra anonima protagonista ha scelto una strategia opt-out (“se non dici niente ti taggo”)? E perché non ha applicato il ragionamento anche alla semplice pubblicazione della mia faccia in una foto di gruppo?
Evidentemente non era molto convinta della validità di questa “ritrosia”, altrimenti avrebbe chiesto innanzitutto a ciascuno dei fotografati “Posso pubblicare la foto?” seguita da “Posso taggare qualcuno di voi?”
Un certo livello di irrecuperabilità è infatti sempre presente nelle persone che sviluppano una dipendenza.
Potevo affrontare una piccola conferenza sul valore della privacy, sul diritto alla riservatezza e sui misfatti delle comunità sociali? Sarebbe stata cosa buona e giusta. Ma il contesto, la pigrizia ed una certa dose di stanchezza (sì, anche su una questione di principio si può essere stanchi) non me lo permettevano.
Per cui in un impeto di sintesi la mia risposta fu tanto semplice quanto convincente: “Se lo fai ti picchio”.
Voi cosa avreste detto (o fatto)?
Marco Calamari
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