Una delle domande più assillanti che da tempo circola nel Web 2.0 è: se un produttore cinematografico carica un video su YouTube e poi questo viene incluso nella pagina di qualcuno su MySpace, chi dovrebbe incassare i proventi della pubblicità inserita in quel video? Se lo chiedono anche al New York Times , definendo la questione come Economics of Mashups , l’economia dei mashup.
Il termine mashup , tipico del Web 2.0, come sanno i lettori di PI definisce la miscelazione di contenuti provenienti da più fonti con lo scopo di dare vita ad un messaggio nuovo, ma correlato a quelli da cui deriva. Secondo il quotidiano, tutti i componenti della “filiera” dei contenuti, dalla produzione alla diffusione, dovrebbero ricavare parte dei proventi pubblicitari, compreso – nell’esempio di apertura – l’estensore di quella pagina personale su MySpace.
Ed è un problema che si pone all’intero settore. Bebo , il social network sulla cresta dell’onda nel Regno Unito, ha introdotto un nuovo sistema per gestire le pubblicità nei video: la sua intermediazione offre a chi carica un video la possibilità di mostrarlo a qualcosa come 40 milioni di utenti . Non è strano per Ziv Navoth, marketing VP di Bebo, che la grande visibilità offerta dal network, unita alla grande velocità di distribuzione, venga dunque ricompensata.
“Per un produttore video, inserire direttamente un filmato su MySpace vuol dire sedersi attorno a un tavolo e negoziare un accordo; dopodiché, loro si prenderanno una fetta dell’incasso”, ha detto Navoth. Una procedura che su Bebo non è necessaria: il video può esser caricato direttamente. “Per noi, con tutto il materiale multimediale e tutti i produttori con cui abbiamo a che fare, gestire singolarmente gli accordi sarebbe stato impossibile”, ha proseguito.
Così, il social network più trendy in UK ha progettato altri metodi: per esempio, offre di rivendere delle pubblicità per conto dei produttori video, trattenendo una percentuale. Oppure, permette di inserire le proprie pubblicità nelle pagine che contengono i filmati. “Gestire (automaticamente, ndR) tutti questi contenuti ci consente di incrementare l’audience e di rendere l’attività pubblicitaria più accattivante”, conclude Navoth.
Anche Facebook sta affrontando approcci simili sulla sua nuova piattaforma. Non consente di inserire pubblicità sulle pagine degli utenti – in quanto è venduta da Facebook stesso – ma permette a chi produce applicazioni di inserire pubblicità nello spazio specifico delle applicazioni stesse. Naturalmente anche MySpace, che ha ricalcato le orme di Facebook nel campo della produzione di applicazioni, intende percorrere strade simili.
E in Italia? Nel complesso Paese del Sole l’innescarsi di questi meccanismi, almeno inizialmente, potrebbe non essere del tutto immediato . I produttori cinematografici, anche non professionali, affrontano il business in modo diverso . Anche le tecniche di diffusione passano per concezioni e filosofie di vita diverse . Ma ormai, oltremanica, la “divisione dei pani e dei pesci” è avviata e ha colpito al di là dell’Atlantico: segno evidente che la pubblicità online , ormai tracimata anche nel mercato mobile, nonostante qualche contrarietà tira a gonfie vele.
Marco Valerio Principato