Non si tratta di brani condivisi senza autorizzazione, ma della selezione e della sequenza con cui i brani vengono organizzati: i modelli di business dell’industria musicale digitale creano nuovi nodi da sciogliere per la giustizia. A dimostrarlo, la denuncia sporta dall’etichetta Ministry of Sound nei confronti di Spotify.
Ministry of Sound, colosso britannico della musica dance, vanta una vasta scuderia di artisti e produce i loro dischi sotto il proprio marchio. Ma opera altresì molto attivamente nel settore delle compilation , chiedendo in licenza brani di altre etichette per assemblarli in florilegi danzerecci che allietano i sensi degli appassionati del genere. Spotify, dal canto suo, ha acquisito i diritti per proporre in streaming tutti i brani che offre in ascolto agli utenti. L’etichetta però, ha riscontrato un numero consistente di proprie compilation, assemblate dagli utenti sotto forma di playlist su modello delle tracklist che propone nei propri dischi .
Le playlist condivise sono numerose, e sistematicamente classificate dagli utenti in maniera inequivocabile, identificate con i titoli delle compilation di Ministry Of Sound. L’etichetta, dopo numerose richieste di rimozione rimaste disattese, formulate fin dal 2012, ha dunque deciso di denunciare Spotify : permette ai propri utenti di ricalcare e condividere delle collezioni curate dall’etichetta, senza riconoscere alcun diritto o compenso all’etichetta che seleziona i brani e dà loro un ordine per creare le compilation che commercializza.
“Quello che facciamo – ha spiegato il chief executive di Ministry Of Sound Lohan Presencer – è molto più che assemblare delle playlist: serve molto lavoro di ricerca per creare le nostre compilation, e la proprietà intellettuale è coinvolta in questo processo”. Ricalcare e riproporre la struttura di un disco, nel quadro normativo europeo, dovrebbe ricadere sotto il diritto riconosciuto ai curatori delle banche dati ( Direttiva 96/9/CE e rispettivi recepimenti negli stati membri). Su queste basi Ministry Of Sound domanda a Spotify la completa rimozione delle playlist incriminate e una compensazione dei danni che l’etichetta subisce per le libertà che la piattaforma concede ai propri utenti: chiede dunque che la giustizia britannica imponga il rispetto dei diritti legati all’opera di curation , che dia un valore all’opera di ricerca e selezione necessaria per comporre una compilation .
“Se non ci muoviamo e agiamo contro un servizio e contro degli utenti che sottovalutano le nostre competenze di curatori considerandole una semplice creazione di una lista – sottolinea sempre Presencer – apriremo le porte a chiunque voglia copiare il lavoro del curatore”. La piattaforma, infatti, non mostra di prevedere alcun tipo di sistema di licensing o di tutela per la struttura dei dischi , in modo analogo ad altri servizi dedicati alla creazione di playlist, che hanno ceduto alle pressioni di Ministry Of Sound, acconsentendo a rimuovere le playlist che ricalcano le compilation.
Ma oltre che una crociata per sciogliere una intricata questione legale in grado di delineare meglio i contorni della creatività e del diritto d’autore, quella di Ministry Of Sound potrebbe rappresentare una presa di posizione puramente di mercato: questo sembrano tradire le parole dello stesso Presencer, autore di un commento pubblicato dal Guardian . L’etichetta non ha alcun rapporto economico con Spotify. In passato aveva tentato di negoziare un contratto di licensing per una applicazione che remunerasse tanto i detentori dei diritti sui brani contenuti nelle playlist di Ministry Of Sound quanto l’operazione di curation di Ministry Of Sound. La negoziazione non è mai andata in porto. Diverso il caso delle compilation che ricadono sotto il celeberrimo marchio Now That’s What I Call Music! : afferente a Sony e Universal, entrambi azionisti della prima ora di Spotify, usa le playlist come uno strumento per rendere popolari dei brani da cui Sony e Universal ottengono una remunerazione perché ne detengono i diritti.
Gaia Bottà