Roma – Chissà se l’ottimo Enzo Cheli, presidente dell’Autorità per le TLC, conosce Slashdot o che ne so, per uscire dall’ambito tecnico, Salon . Viene da chiederselo visto quanto è riuscito a dichiarare nei giorni scorsi, sostenendo con forza la necessità di regolamentare l’informazione in rete.
Secondo Cheli le non meglio definite “testate telematiche” devono essere sottoposte a nuove discipline capaci di entrare nel merito del rapporto tra quanto viene comunicato e la modalità con cui ciò avviene; che possano definire i diritti e i doveri della “funzione informativa”; che aprano le porte ad una classificazione dei “profili professionali”. Con una postilla importante: per le testate che vogliano ottenere i benefici previsti dalla legge occorrono definizioni di “impresa editrice”, “stampato” (?), “periodico”.
Se ha parlato di queste cose è perché Cheli ritiene che la sua Autorità debba occuparsi di regolamentare “la definizione del prodotto editoriale, delle imprese editrici e degli obblighi di registrazione”. Secondo Cheli serve “un nuovo quadro normativo” che a suo dire – ma non ha presentato alcun genere di sondaggio o rilevazione statistica – viene richiesto non solo dagli editori ma anche da chi fruisce dell’informazione. Il riferimento è alle varie proposte che la corporazione giornalistica è riuscita a far arrivare in Parlamento.
La presa di posizione di Cheli, che non prende atto del valore dell’afflato di libertà della poco regolamentata informazione online, mi sgomenta perché ha tutta l’aria della “quadratura del cerchio”. Fino ad oggi a chiedere “nuove regole per le informazioni diffuse sulla rete” (praticamente un paradosso logico) erano stati sostanzialmente i giornalisti. Paolo Serventi Longhi, il battagliero capo del sindacato dei giornalisti, ha più volte sostenuto la necessità di costringere l’informazione e l’editoria in rete su binari controllati e controllabili. Si sono avuti, è vero, accenni da parte di alte autorità dello Stato che andavano nella stessa direzione, senza entrare però nei dettagli. Questa di Cheli è invece una dettagliatissima presa di posizione e fa pensare che la lobby corporativa intenda stringere i tempi. Magari per spingere il Parlamento ad approvare davvero nuove regole prima della fine della legislatura.
Ma a che servono nuove regole? Perché le teste d’uovo del giornalismo ufficiale nostrano partecipano a talk show e sacre conferenze di corporazione per chiedere a gran voce nuove e severe norme? Si tratta essenzialmente e banalmente di soldi.
Nuove regole servono per fare in modo che il mondo giornalistico tradizionale non veda sottrarsi troppi fondi pubblici dal “nuovo giornalismo online”, che chi fa informazione in rete possa essere definito giornalista professionista e che quindi possano essere varati contratti nazionali di categoria o, peggio, riproposti contratti di categoria già utilizzati off line.
Da qui si potrebbe, ma è già stato fatto , dilungarsi sull’illegalità del giornalismo professionistico che prospera violando i precetti libertari dell’articolo 21 della Costituzione, oppure parlare dell’inutilità di regole che non tengono presenti la duttilità, la flessibilità e la sovranazionalità della rete.
Può invece risultare più interessante chiedersi perché non si spenda un decimo delle energie profuse a difendere i propri stantii orticelli per aggredire con forza, invece, il fango in cui si dibatte la stampa cartacea e televisiva in questo paese. Un fango fatto di asservimento al potere economico e politico, un fango tale da far addirittura considerare rivoluzionario il direttore di un telegiornale realizzato con i soldi del canone Tv perché del Governo non parla sempre e soltanto bene… I guasti del professionismo giornalistico sono sotto gli occhi di tutti, siamo sicuri che vogliamo occuparci di come trasportare tutta questa melma anche nel libero mondo della rete?