Questa è la storia di un inutile “successo”. Di un successo “triste”. E di una triste “riflessione”.
Una storia basata sul nulla (perché di conseguenze non ce ne sono e il termine “successo” è abusato ormai da troppo tempo), ma si tratta di un nulla scintillante e rumoroso, luccicante di quella luce riflessa di cui si nutrono influencer e para-influencer dei giorni nostri. Questa è la storia di un reel, di milioni di visualizzazioni, di notifiche continue e di decine di follower che hanno pensato fosse l’inizio di qualcosa. Una storia che nasce sui social, cresce sui social e sui social muore senza aver coltivato nulla.
Come milioni di altri reel, in un rumore di fondo ossessionante e continuo che qualche importante conseguenza sulla società non può non averla.
Storia di un reel
Questa, infatti, è la disamina di un reel nato la sera in cui l’Argentina si è imposta sulla Francia durante la finale dei Mondiali di Calcio. Era il 18 dicembre e in Argentina era pieno giorno: quando la palla ha gonfiato la porta l’ultima volta, l’esultanza a Buenos Aires è esplosa in tutta la sua follia, con scene di giubilo mischiate a scene raccapriccianti di festa esagerata che avrebbe portato anche ad alcuni incidenti gravi. Mentre in tv le telecamere indugiavano sulla piazza, l’occhio cade su una scena evidentemente “forte”: un padre, uscito di senno per il gol che consegna il mondiale all’Argentina, si abbandona alla festa senza ricordarsi che in braccio ha suo figlio, chiaramente sorpreso nella pennichella. Il padre inizia a saltare e esultare, sballottando il figlio in modo evidentemente fuori misura.
Uno smartphone puntato verso il televisore, la scena messa in primo piano, upload immediato. Ecco il reel.
Certo, l’intuizione era stata giusta: la scena è forte perché esce dai canoni di quella che dovrebbe essere la normalità di un festeggiamento. Ma le conseguenze di questo upload saranno chiare soltanto poche ore più tardi. Il video, infatti, entra tra i reel suggeriti da Facebook e molto rapidamente inizia a macinare visualizzazioni. A distanza di un mese, il video ha ormai superato quota 5 milioni di view: poche se ti chiami “Khaby Lame”, forse, ma decisamente molte se il tuo è un account qualunque, con qualche riflessione e ben poco mainstream.
A mano a mano che le condivisioni ed i like si moltiplicano, il contatore delle view si porta appresso un punto di domanda: che cosa ha scatenato tutta questa ridda di reazioni mai vista prima? Basta leggere i commenti per comprendere la dinamica e per vederla in tutta la sua nuda verità: quel che il video ha saputo fare, è stato solleticare il magico e dinamitardo potenziale dell’indignazione. Genitori pronti a puntare il dito, tifosi ponti a puntare il dito, osteopati pronti a puntare il dito, psicologi pronti a puntare il dito. Tutti perbenisti a puntare il dito contro quel papà ripreso da una telecamera (e da uno smartphone poi) mentre si abbandonava ad una reazione impulsiva della quale probabilmente si sarebbe anche pentito se solo avesse potuto rivedersi in monitor.
La forza dell’indignazione
L’indignazione è oltremodo virale. Scatena la “reaction” e trasuda “engagement“. L’indignazione è linfa per il social network e questo lo sanno quei molti profili che ne hanno fatta una professione: dacci oggi il nostro argomento d’indignazione quotidiano e potremo riversare bile sulle pagine per inondare ogni giorno il mondo di giudizi. Lo stigma social è quotidianità alla quale ormai siamo quasi assuefatti. Poi ti capita il video che “fa successo” e quel che noti è che non si tratta di un successo gradevole: la forza dei numeri non è commisurata a nulla se non alla bontà di una intuizione ed alla quantità di testosterone che social-account di ogni estrazione riversano sull’argomento del giorno.
L’indignazione è per molti versi una valvola di sfogo e, al tempo stesso, una cartina di tornasole in grado di misurare il tasso di rabbia insito in una società. Un semplice reel è in grado di metterlo in luce chiaramente, attirando a sé gli ioni di tutto questo potenziale emotivo per scaricarli a terra approfittando di post, video o immagini che sappiano catturarne la carica. Già nel 2015 Manuel Castells vedeva in questa dinamica la scintilla di nuovi movimenti sociali basati, appunto, su indignazione e speranza.
Quella che ad un occhio superficiale potrebbe sembrare una sorta di cattiveria gratuita e trasversale che le community social sfogano continuamente attraverso i commenti, più nel profondo è una radice comune intrisa di tensione sociale. Il tutto ha forti risvolti tanto nella comunicazione (dove indignazione e riscatto diventano gangli della nuova narrazione) quanto nella politica (dove medesime leve sono usate ad arte su fatti di infima importanza portati all’onore delle cronache in un dibattito spesso sterile e continuamente improvvisato).
Quel che fa riflettere è quanta parte di questo mondo social si presti all’inganno dell’indignazione, servita su piatti d’argento come nuovo collante sociale intriso di acida provocazione. Metabolizziamo la realtà attraverso complottismi e disagio sociale, parole sporche gettate nel ventilatore da assennati leoni da tastiera e putrido odore di false riflessioni sul sé e sul prossimo. Ma poi ci si trova nudi di fronte ad un reel i cui numeri raccontano quello che siamo, né più, né meno.
Il successo social non è tutto uguale, per fortuna: genio, simpatia e competenza trovano a volte smagriti spazi di espressione da poter coltivare in modo sostenibile. Questa esplosione di view non era peraltro in alcun modo immaginata, ma si è manifestata improvvisa in tutta la sua forza proprio cavalcando( controvoglia e a sua insaputa) l’onda lunga dell’indignazione. Resteranno delusi i follower, che non potranno trovare seguito a questa scarica di adrenalina. Ma le view continueranno, perché l’indignazione nutre l’algoritmo e l’algoritmo coltiva quelle che sono le sue colture migliori.