Gli avvocati e i rappresentanti delle major della musica farebbero bene a consultare i loro astrologhi e cartomanti: una qualche configurazione stellare non è loro favorevole. Nuovi problemi arrivano dagli USA, con professori di Ivy League e giudici di lungo corso che criticano la linea tenuta in questi anni nel corso di vari processi che tirano in ballo la condivisione di file protetti. L’accusa? RIAA si muove in modo incostituzionale.
Negli ennesimi strascichi di un caso che vede contrapposte le major musicali a Joel Tenenbaum, all’epoca dei fatti contestati un minorenne, il professor Charles Nesson della facoltà di Legge di Harvard ha presentato una memoria difensiva che pone in dubbio la costituzionalità della norma su cui si basa l’intero castello accusatorio dei detentori dei diritti: il Digital Theft Deterrence and Copyright Damages Improvement Act del 1999.
Secondo il professore, esisterebbe una sproporzione eccessiva tra il valore di mercato di un singolo brano (che su iTunes Store vale 99 centesimi, altrove anche meno) e la somma minima prevista dalla legge come risarcimento: 750 dollari per canzone, che salgono a 150mila dollari nel caso l’infrazione venga commessa intenzionalmente. Troppo ampio, secondo Nelson, il divario tra le due cifre per configurare un reato da gestire con rito civile: ed è proprio qui che si gioca la partita secondo l’accademico.
La possibilità di vedersi comminare con rito civile risarcimenti potenzialmente milionari, secondo Nelson costituisce materia di incostituzionalità per la legge in oggetto: se al reato contestato si applicasse il codice penale all’accusato spetterebbero garanzie diverse, sia sul piano formale che sul piano pratico. Dovrebbe ad esempio venire giudicato da una giuria di suoi pari, al contrario di quanto avviene oggi con un singolo giudice che opera una scelta basandosi unicamente sulle proprie valutazioni. Ci sarebbero insomma gli estremi per dichiarare violati almeno due emendamenti della Carta statunitense, il quinto e l’ottavo, con conseguente annullamento di tutti i procedimenti collegati alla memoria difensiva presentata.
Come già accaduto in passato, è dunque attorno alle cifre richieste come risarcimento dalle major a girare la questione. Più che i soliti dibattiti sulla differenza tra messa in condivisione ed effettivo scambio di file, argomento comunque sempre all’ ordine del giorno , in questo caso i legali sembrano concentrarsi principalmente sul fattore economico : e non è cosa da poco , visto anche che anche il giudice Nancy Gertner ha richiamato l’attenzione dei collegi legali della RIAA sulle modalità con le quali vengono condotti i procedimenti nei confronti degli utenti rei di P2P non autorizzato, almeno nella sua aula nella città di Boston.
Nella trascrizione di una udienza tenuta di recente, il giudice rivolge apprezzamenti piuttosto taglienti agli avvocati delle major: “Gli avvocati che rappresentano le aziende musicali hanno l’obbligo etico di considerare che stanno procedendo contro persone che non hanno un avvocato” ha tuonato Gertner, sottolineando come l’enorme numero di azzeccagarbugli messi in campo dai detentori dei diritti sia in grado da solo di “soverchiare” la parte avversa, rischiando di mandare i comuni cittadini “in bancarotta” per tentare di tenergli testa.
Si ripropone insomma un ritornello già sentito in questo e altri settori: chi ha denaro da investire in prestigiosi studi legali in grado di far valere i propri diritti si trova avvantaggiato rispetto a singoli individui colpiti da un provvedimento di questo tipo, tanto che il giudice arriva ad affermare che “non ha senso tentare di controbattere (a queste accuse, ndr) da soli”. Si tratta di un’impresa che può dimostrarsi improba per le tasche di un normale cittadino , che rischierebbe di soccombere senza una difesa adeguata anche nel caso sia innocente.
Non è mai stato chiarito, infatti, quanti siano i “falsi positivi” delle indagini condotte dalle major del disco (e non solo) per scovare i pirati che si annidano tra le maglie delle reti P2P in giro per il globo. Tra gli ultimi casi di questo tipo rivelati al pubblico, figura quello dei coniugi Ken e Gill Murdoch , rispettivamente 66 e 54 anni, che si sono visti recapitare nella loro buca postale in Scozia una lettera contente l’accusa di aver condiviso illegalmente un videogioco automobilistico via P2P.
I due non sapevano neppure cosa fosse il peer to peer prima di ricevere la lettera, e men che meno avevano idea di quale fosse il titolo videoludico in questione: possiedono un computer ma, forse anche a causa dell’età, non hanno mai giocato ad un videogame in vita loro. Figurarsi scaricarlo: si tratterebbe, insomma, dell’ennesimo caso di qualcuno identificato tramite l’IP, evidentemente però a causa dell’abuso commesso da qualcuno sulla rete casalinga dei due signori o a causa di un semplice errore nel tracciamento dell’IP .
A sentire gli addetti ai lavori, sarebbe un problema in crescita . Centinaia di citazioni sarebbero inviate e poi archiviate perché recapitate alla persona sbagliata: si tratta, però, di un argomento di cui gli interessati non parlano volentieri, visto che molto spesso si tratterebbe di rispettabili cittadini che non gradiscono l’idea di vedere il proprio nome accostato, anche solo per caso, ad un procedimento giudiziario. Anche questo è un fattore di cui tenere conto: se dovesse scatenarsi un’ondata di richieste di risarcimento per fatti di questo tipo, la contrapposizione tra detentori dei diritti e pubblico potrebbe farsi ancora più rovente di quanto non sia già.
Luca Annunziata