Aldo Fontanarosa in un bell’ articolo su Repubblica racconta della progressiva delocalizzazione all’Estero dei call center degli operatori italiani e del trattamento “discriminatorio” utilizzato dai nostri operatori di telefonia nell’erogare ai propri clienti assistenza on call. Si tratta di due fenomeni sui quali val la pena di fermarsi a riflettere qualche istante specie dopo che il nostro Parlamento, nelle scorse settimane, ha varato – sotto le mentite spoglie di un inoffensivo emendamento ad una legge di conversione ad un decreto legge – una nuova disciplina sul telemarketing , che di fatto, finisce con il liberalizzare l’utilizzo dei numeri telefonici di tutti i cittadini italiani salvo opposizione espressa.
Innanzitutto una considerazione di carattere politico cui è difficile sottrarsi.
Molti dei sostenitori della nuova disciplina sul telemarketing – sia nel Palazzo che fuori – nelle scorse settimane hanno, tra l’altro, sostenuto che si sarebbe trattato di una riforma indispensabile per salvare un comparto industriale altrimenti condannato al fallimento con gravissime ripercussioni sul versante occupazionale. Argomento di grande impatto politico-emotivo, occorre riconoscerlo, in un momento di crisi come questo.
Peccato, tuttavia, dover prendere atto che i lavoratori che beneficeranno del “regalo” che il Parlamento ha appena fatto all’industria del settore siano a Bucarest, Tirana e persino Buenos Aires ma non in Italia.
Ora che abbiamo salvato l’industria dei call center italiana, quindi, si chiudono i call center, si rendono più ricchi gli operatori e si mandano a casa i lavoratori perché nel nostro Paese costano troppo e fanno un lavoro che può essere fatto in modo più economico dall’estero.
Non credo serva aggiungere altro.
A prescindere, tuttavia, da tale riflessione, l’articolo di Aldo Fontanarosa solleva almeno due diverse considerazioni di carattere più prettamente giuridico. La delocalizzazione all’estero dei call center dei nostri operatori telefonici (e non solo) ha, ovviamente, per presupposto il trasferimento fuori dai nostri confini di un enorme mole di nostri dati personali. Alcuni dei Paesi di destinazione, peraltro, oltre a vantare un più basso costo della manodopera sono noti anche per un’attenzione alla privacy, dei propri e degli altrui cittadini, decisamente inferiore agli standard europei. Ci sarebbe ben poco da stare allegri, quindi, se il nostro numero di telefono transitasse effettivamente oltre confine. Non ho dubbi che gli operatori telefonici italiani e le società di telemarketing abbiano ben chiara questa delicata questione ma, tanto per essere sicuri di evitare equivoci, mi sembra importante ricordare che la nuova disciplina sul telemarketing appena varata, legittima – in assenza di opt-out da parte dell’interessato – il solo trattamento dei nostri numeri telefonici entro i confini europei ma, in nessun caso, ne autorizza il trasferimento all’estero.
Una seconda considerazione, probabilmente, più preoccupante della prima.
Pare che per molti fosse circostanza nota ma personalmente – probabilmente per un eccesso di ingenuità – ho sin qui creduto che tutti i clienti dei nostri operatori telefonici fossero eguali dinanzi all’esigenza di ricevere assistenza e che l’unica distinzione – a tutto voler concedere – fosse tra utenti business ed utenti consumer. Questo, d’altra parte, è quello che suggeriscono i contratti – tutti identici appunto – che legano gli utenti agli operatori telefonici. Dal pezzo su Repubblica di Aldo Fontanarosa, emerge, invece che la realtà sarebbe ben diversa e che gli utenti delle telco italiane sarebbero divisi in cluster organizzati secondo i volumi di traffico generati e, dunque, l’ammontare delle bollette pagate agli operatori: tanto più la bolletta media sarebbe salata tanto migliore sarebbe il servizio erogato.
Ho qualche dubbio circa la legittimità – anche sotto un profilo strettamente civilistico e di diritto del mercato – di tale pratica che sembrerebbe essere diffusa, ma il punto ora è un altro. Il presupposto del trattamento discriminatorio riservato dalle telco agli abbonati è, infatti, evidentemente, una profilazione di questi ultimi secondo i consumi e la spesa di ciascuno.
Non credo, tuttavia, che un simile trattamento dei dati personali dell’abbonato – svolto evidentemente in forma non anonima – possa ritenersi lecito in assenza di esplicito consenso né considerarsi rientrante nella deroga relativa ai trattamenti di dati personali necessari a dare esecuzione ad un contratto. Le condizioni generali di contratto, infatti, non mi sembra autorizzino o addirittura obblighino le telco a fornire ai propri abbonati prestazioni di assistenza secondo standard differenziati in relazione a quanto loro fatturato. Se quanto riferito nell’articolo di Fontanarosa avviene davvero, pertanto, credo sarebbe opportuno un intervento del Garante per verificare la legittimità di un’attività di profilazione di massa che non risponde ad altra esigenza se non a quella di consentire alle telco di attuare i propri piani di customer care e marketing e che, soprattutto, è svolta all’insaputa dei consumatori e non certo a loro vantaggio.
Tale prassi, peraltro, risulta più inquietante se posta in correlazione, ancora una volta, alla nuova disciplina sul telemarketing. Appare, infatti, difficile da credere che le telco – che a quanto pare dispongono dei dati della propria clientela organizzati per propensione e/o capacità di spesa – sappiano resistere alla tentazione di combinare tali informazioni con gli elenchi degli abbonati per dar vita a campagne di marketing più mirate ed aggressive. Mi rendo ben conto che sul tavolo c’è più di un elemento di incertezza ma, proprio per questo, alla vigilia di un cambiamento tanto importante nella disciplina della materia, credo sia indispensabile far chiarezza in modo che ciascuno, domani, sappia esattamente dove, come e per quali finalità i suoi dati, in assenza di iscrizione nel costituendo registro negativo, potranno essere utilizzati.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it