Roma – 11 settembre, 11 ottobre. Siamo ad un mese dai tragici attacchi terroristici che hanno sconvolto l’America ed il mondo intero.
Lo so, in questo momento in cui si configura uno scenario apocalittico da terza guerra mondiale non dovrei perdermi in disquisizioni di questo tipo. Non è deformazione professionale, ve l’assicuro, è semplicemente il bisogno di condividere con voi alcune riflessioni sull’I-War , o meglio, sul ruolo dell’informazione nella prima guerra del Terzo Millennio.
Su questo attacco è stato detto di tutto, non entro nel merito della questione perché non ne ho le necessarie competenze, e non è questo l’ambito adatto ad un approfondimento. Ma poiché tutti, proprio tutti, i media ruotano intorno a questo tema, vorrei tentare di riflettere sul nuovo marketing emergente, il war marketing, perché ci insegna alcune lezioni supreme ed altre particolarmente mostruose.
Prendiamo, ad esempio, il primo annuncio di Bush il giorno dopo l’attacco. Una grande lezione di marketing. Anzitutto Bush non ha ufficialmente dichiarato “guerra”, ma ha definito l’attacco terroristico come un “atto di guerra”. Geniale, no? E la lezione più grande è stata quella della divisione del mondo in due categorie, con la storica affermazione “Chi non è con me, è con i terroristi”.
Non ha detto la frase scontata che tutti si aspettavano, “O con me o contro di me”, ma peggio, perché questa volta chi non è dalla parte degli americani è, a detta di Bush, dalla parte dei terroristi.
Vi state chiedendo cosa c’entra il marketing? Sicuramente c’è l’opera di abili strateghi e comunicatori, dietro la scelta del nome per l’operazione, “Giustizia Duratura”, più che un nome un vero e proprio “claim”. E così non si parte più per fare una guerra, ma per fare Giustizia. Un’altra grande lezione di marketing. I consensi di Bush sono alle stelle. E oggi, si sa, la guerra si vince anche e soprattutto con i consensi, da ambo le parti.
E’ una nuova guerra, quella alla quale assistiamo. Una guerra più evoluta rispetto alla prima, la Guerra del Golfo, quella che dieci anni fa ha inchiodato ciascuno di noi allo schermo per assistere, in diretta, ai bombardamenti notturni.
Gli stessi media che ogni giorno mandano in onda le promesse (contenute nel nuovo “claim” dei paesi della NATO) di “Giustizia Duratura” di Bush all’America e al mondo, però, sono serviti a Bin Laden per diffondere il suo invito, ai musulmani di tutto il mondo, ad unirsi nella lotta contro gli infedeli, e minacciare per sempre la sicurezza degli americani e dei suoi alleati. A diffondere il terrore non è il volto di Bin Laden, né tanto meno le sue parole. Il suo volto avrebbe potuto essere visto da 5, 10, 100 persone, e la sua voce udita da altrettante. E’ la televisione. Senza questo potente mezzo che arriva nelle case di tutti noi probabilmente le parole di Bin Laden si sarebbero perse tra le montagne dell’Afghanistan. Ma grazie ai nostri media quelle parole risuonano ancora adesso nella mente di ognuno di noi. E ci terrorizzano.
E quel che è peggio è che se, da una parte, si tenta di isolare il terrorismo distruggendone i canali di comunicazione, ed aumentando i controlli nelle TLC (Echelon), sacrificando la privacy dei cittadini in nome della sicurezza, dall’altra, con un’ingenuità sorprendente o per il “diritto all’informazione”, si contribuisce a diffondere un appello alla guerra santa (jihad) in tutto il mondo, mandando in onda un filmato che potrebbe anche contenere messaggi in codice.
Sarebbe stato più prudente, forse, trasmettere qualche fotogramma del video in questione, riassumendo i punti “salienti” del messaggio di Bin Laden, e l’informazione sarebbe comunque arrivata ai cittadini, eliminando il rischio di diventare, noi stessi, gli amplificatori dei messaggi in codice (o meno) del terrorismo. Ma già immagino la disapprovazione dei difensori del diritto all’informazione…..
Il ruolo dell’informazione, ancora una volta, è cruciale quanto delicato, lo sa bene Bush quando affronta il suo discorso quotidiano al mondo e lo sa bene anche il terrorismo, che conosce a fondo la nostra civiltà ed il nostro mondo e ne sfrutta, a suo vantaggio, tutte le debolezze. La nostra libertà è già stata colpita duramente con il terribile attacco alle Twin Towers, un tragico evento al quale tutti noi abbiamo assistito in diretta o in differita, grazie alla televisione. La stessa televisione che sta trasmettendo il terrore riproponendoci in continuazione le parole di Bin Laden e dei suoi seguaci.
E’ il nuovo branding, quello delle nazioni, che emerge in questo scenario. Da una parte Bush, che divide il mondo in due categorie, alleati e terroristi, e dall’altra Bin Laden, che lo divide in fedeli e infedeli. Sono questi i brand contrapposti e i cittadini del mondo, così come i politici, gli intellettuali, sono chiamati a schierarsi, da una o dall’altra parte. Pare quasi che la neutralità sia bandita……
Il branding delle nazioni è descritto molto bene da Peter Van Ham in un suo articolo sul magazine Foreign Affairs , del quale vi riporto un brano significativo:
“The traditional diplomacy of yesteryear is disappearing. To do their jobs well in the future, politicians will have to train themselves in brand asset management. Their tasks will include finding a brand niche for their state, engaging in competitive marketing, assuring customer satisfaction, and most of all, creating brand loyalty. Brand states will compete not only among themselves but also with superbrands such as the EU, CNN, Microsoft, and the Roman Catholic Church (boasting the oldest and most recognized logo in the world, the crucifix). In this crowded arena, states that lack relevant brand equity will not survive. The state, in short, will have become the State(r).”
La guerra mediatica è una guerra di “brand”, vincerà il più forte (anche a livello di brand)? Maybe, e allora il più forte non sarà quello che otterrà più consensi nel breve termine, ma quello che saprà costruirsi una maggiore (e “duratura”) brand loyalty.