Nelle strade di Lhasa è rivolta per l’ indipendenza del Tibet : le forze dell’ordine tentano in ogni modo di contenere il dilagare delle proteste sfociate nella violenza dei giorni scorsi. Da anni i gio rnalisti sono fuori dalla città, nessuna voce se non quella delle fonti ufficiali. Proteste, cronache e commenti sfidano la muraglia mediatica eretta dal governo della Repubblica Popolare e si riversano in rete, le parti in causa si fronteggiano sul web, ma non comunicano fra loro.
I media mainstream non possono che affidarsi alle fonti grassroot , in rete rimbalzano traduzioni, testimonianze, fotografie, dimostrazioni di solidarietà e rivendicazioni. Documenti catturati dai cittadini , postati sui portali di video sharing, post dei blog di cittadini tibetani e cinesi, cinguettii su Twitter danno un quadro della situazione a media e società civile che seguono l’evolvere degli eventi.
I canali usati dai netizen locali sono innumerevoli. Sono molte le testimonianze video catturate con strumenti amatoriali che si affollano sui portali di condivisione, accanto ai servizi delle media company internazionali che documentano gli scontri e l’aggressività delle forze dell’ordine impegnate nella repressione. Sono immagini diffuse e rilanciate per mostrare al resto del mondo la discrepanza con le fonti locali ufficiali , che ritraggono i soli manifestanti immersi nel fumo denso dei roghi, intenti a erigere barricate, perfettamente organizzati nell’eseguire un piano che le autorità cinesi considerano premeditato.
Ma le voci che si esprimono con clip video potrebbero affievolirsi: il governo della Repubblica Popolare ha decretato il blocco di YouTube . I controllatissimi servizi locali per la condivisione di video non ospitano alcuna immagine delle proteste, i loro utenti non minano la stabilità e la sicurezza nazionale. Dalla Cina YouTube è inaccessibile, i cittadini della Repubblica Popolare possono seguire l’evolvere degli eventi solo attraverso i filtri ufficiali , da sempre stringenti in materia di Tibet.
Dalla società civile connessa si levano voci contrastanti : c’è chi parla delle macchine propagandistiche di nazionalisti cinesi e tibetani, due poli dal quale si diramano informazioni discordanti sulla base delle quali è complesso ricostruire la realtà. Le agenzie di stampa internazionali raccontano dell’ondata di post permeati dal nazionalismo , megafoni della cultura di stato, strenui difensori delle motivazioni per cui il Tibet non avrebbe diritto di rivendicare l’indipendenza dalla Cina. Sui corrispettivi locali di Twitter si teme per la propria incolumità, si parla di ingratitudine nei confronti del governo cinese, ci si interroga sul motivo delle violenze.
Nel frattempo in rete ferve la mobilitazione: dai blog a Flickr si diffondono prese di posizione e manifestazioni di solidarietà nei confronti dei tibetani che rivendicano l’indipendenza, si propone di monitorare la situazione a mezzo fotografie scattate dai satelliti. Sembra però regnare l’incomunicabilità tra il fronte di chi difende l’indipendenza del Tibet e di chi si esprime a favore della Cina: la rete è uno strumento dialogico, c’è chi invita a sfruttarlo per innescare una conversazione, per mettere in discussione le proprie opinioni, per aiutare a fare chiarezza su una contingenza tratteggiata a tinte forti.
Gaia Bottà