L’accordo Trans-Pacific Partnership ( TPP ) è stato finalmente reso pubblico nella sua versione ufficiale : sembra confermare ancora una volta i timori sollevati dagli osservatori più diffidenti.
Anticipato lo scorso ottobre da diversi documenti e commenti ottenuti da Wikileaks e divulgati da alcune parti coinvolte nel negoziato, il TPP è il trattato di regolamentazione e di investimenti che dovrebbe – tra l’altro – regolare la lotta alla contraffazione nel commercio tra alcuni Stati (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore, Stati Uniti e Vietnam): fin dall’esordio delle sue negoziazioni, nel 2014, è stato tuttavia considerato il naturale erede dell’Anti-Counterfeiting Trade Agreement ( ACTA ), nomea che lo ha accompagnato fino alla sua stesura definitiva.
L’impostazione sembra decisamente rimanere quella di ACTA, riflettendo in maniera preponderante un punto di vista a stelle e strisce sia per la proprietà intellettuale (dalla durata del copyright a 70 anni dopo la morte dell’autore, con conseguente restringimento del pubblico dominio per tutti i paesi che prevedevano una durata minore, al bando delle misure di aggiramento dei sistemi DRM) che, come sottolinea per esempio EFF , per i diritti digitali.
L’ecommerce, la localizzazione dei server e la privacy degli utenti
Nella parte più prettamente commerciale del trattato, per esempio, viene affrontata – agli articoli 14.11 e 14.13 – una questione delicatissima, quella della gestione dei dati degli utenti e delle normative in materia di obblighi di localizzazione nazionale di server: il trattato limita le possibilità di tali leggi, di solito utilizzate per impedire la conservazione dei dati di cittadini all’estero od il loro trasferimento oltre ai confini nazionali, con conseguenti minacce alla loro privacy dal momento che vengono portati via dalle tutele previste dal paese d’origine.
Il tutto non sembra poter essere controbilanciato sufficientemente dalla previsione dell'”incoraggiamento” alle parti ad adottare meccanismi per “promuovere la compatibilità” tra i vari regimi di protezione della privacy e dei dati degli utenti. Un approccio, quest’ultimo, simile a quello del Safe Harbour già bocciato dalle istituzioni europee che temevano avrebbe portato ad una vanificazione delle loro normative favore dei comportamenti meno garantisti adottati negli Stati Uniti.
Per di più le normative in materia adottate dai singoli governi potranno essere messe in discussione dagli altri stati firmatari del TPP attraverso un tribunale ad hoc istituito col trattato: una previsione che sembra poter ostacolare anche eventuali impegni di singoli stati membri verso la maggiore protezione della privacy dei propri cittadini.
Inoltre l’articolo 14.8 sulla “Protezione delle informazioni personali” permette agli Stati di rispettare i requisiti richiesti permettendo ai singoli soggetti di adempiere a propri regolamenti interni volontari e limitandosi a verificare il loro rispetto. Stesso meccanismo di auto-regolamentazione è previsto all’art. 14.14 per le normative in materia di spam, che di base prevede solo di adottare “misure per impedirlo” come l’opt.out da fastidiose newsletter “o altri strumenti per minimizzare questo tipo di messaggi”.
Gli aventi diritto e l’accesso ai dati
L’accordo prevede inoltre nella sezione dedicata alla proprietà intellettuale un’applicazione di misure di enforcing che ricordano molto la normativa statunitense: in caso di violazione di copyright gli aventi diritto, in base all’articolo 18.82 si potranno chiedere agli Internet Service Provider i dati dei presunti responsabili della violazione ed “ogni stato membro dovrà prevedere procedure, amministrative o giudiziarie, per permettere agli aventi diritto che abbiano dimostrato di avere sufficienti motivi per agire di ottenere velocemente dagli ISP i dati in loro possesso”.
Il codice sorgente
Per quanto riguarda l’ Internet of Things (IoT) e la sempre maggiore diffusione di software, dalle automobili ai dispositivi medici passando per gli edifici, il TPP si oppone anche a tutti quei governi che hanno cercato di mantenere il controllo sulla situazione del settore imponendo la disclousure del codice sorgente dei software forniti agli enti pubblici.
Nonostante questo rappresenti una sicurezza per i software impiegati delle pubbliche amministrazioni, dall’esercito ecc. o permetta per esempio di evitare in futuro il ripetersi di episodi come quello dello scandalo emissioni Volkswagen, secondo il TPP la richiesta di accesso al codice sorgente sarà permessa alle autorità solo nel caso di “infrastrutture critiche”, ma non quello di macchine, dispositivi medici, database pubblici ecc.
La neutralità sulla net neutrality
Per quanto riguarda il dibattito sulla net neutrality, invece, il trattato sembra meno negativo del previsto: per quanto diversi osservatori ne contestino una visione ancora una volta annacquata, altri ne riconoscono la possibile utilità: il TPP prevede che i suoi membri assicurino alle aziende provenienti da altri stati membri l’accesso alle infrastrutture di telecomunicazione tra cui i servizi Internet “a termini e condizioni ragionevoli e non discriminatorie”. Una previsione che vale anche per gli accordi di “interconnessione”, ovvero quelli sottoscritti tra Internet service provider per l’accesso reciproco a canali di connessione, che devono avvenire a “tariffe ragionevoli”.
L’entrata in vigore
Se tutti e dodici i paesi partecipanti al trattato non lo ratificheranno entro due anni, le sue previsioni potranno avere effetto se almeno sei paesi rappresentanti l’85 per cento del PIL del blocco lo avranno firmato.
Claudio Tamburrino