Roma – I nomi sono certo inquietanti: scansione dell’iride, rilevazione dell’impronta, analisi facciale. E queste sono solo alcune delle funzionalità offerte dalle tecnologie di rilevazione biometrica, quelle pensate per tentare di identificare un individuo in modo esatto partendo dalle sue caratteristiche fisiche peculiari.
Sono tutti sistemi che, indipendentemente dalle macchine utilizzate per tali invasive analisi, evocano scenari da fantascienza e fan correre sottili brividi lungo la schiena per le conseguenze storiche e sociali che potrebbero avere una volta adottati. Chiunque abbia assorbito l’essenza di film alla Gattaca o letto qualcuno dei numerosi romanzi che toccano l’argomento biometria avrà già edificato un solido immaginario, immancabilmente schierato contro le tecnologie biometriche.
Si tratta perlopiù di pregiudizi, in quanto l’esperienza dell’essere sottoposti ad analisi biometrica in Italia e all’estero riguarda un numero relativamente esiguo di persone, un’esperienza ancora lontana su cui è difficile costruire un giudizio consapevole. Si tratta in ogni caso di pregiudizi incapaci di impedire la diffusione delle piattaforme biometriche, soluzioni alle quali le polizie di mezzo mondo si rivolgono con sempre maggiore interesse per le esigenze di sicurezza, avvertite dappertutto in misura crescente.
Due giorni fa sono stati resi pubblici negli Stati Uniti i risultati di uno studio condotto su ordine dell’Ufficio di statistica del Dipartimento della giustizia, dal quale emerge che la maggioranza degli americani nulla ha contro le tecnologie biometriche. Anzi, il 91 per cento di loro ritiene che la scansione dell’impronta delle dita prima di acquistare un’arma da fuoco sia auspicabile, per controllare che chi acquista non sia persona condannata per reati legati all’uso delle armi (!). Le percentuali dei consensi variano a seconda delle motivazioni addotte per la rilevazione biometrica: si va dal 78 per cento per il ritiro di soldi da un bancomat al 56 per cento per evitare che nei casinò entrino bari e truffatori già condannati.
Anche se i pregiudizi di cui sopra possono indurci a pensarlo, in realtà gli statunitensi interpellati per questo studio non sono dei pazzi. Quasi tutti hanno infatti messo l’accento sulla necessità che le rilevazioni biometriche siano accompagnate da chiari codici di condotta: dalla trasparenza sui motivi per i quali si ricorre a questo tipo di verifica fino al divieto per chi effettua le rilevazioni di incrociare i dati raccolti con i database raccolti da altri. E non si fanno problemi se chi esamina il loro DNA è un soggetto privato.
Qualcuno potrà obiettare, e ci hanno provato ripetutamente quelli dei diritti civili, che molte delle tecnologie utilizzate sbaglino troppo spesso, che un gel le possa ingannare oppure che una scansione del volto solo per salire su un battello sia un’enormità. La verità è che per obiettare a tutto questo tocca parlare di privacy, cioè di quel rumoroso carillon che finalmente ammuffisce solitario nelle soffitte, ormai ritornello scomodo per un mondo che, per la prima volta nella sua storia, crede di potersi aggrappare solo alla tecnologia per acquietare le proprie ansie. O per illudersi di poterlo fare.