“Senza Twitter la crescita esplosiva dell’ISIS, che negli ultimi anni si è trasformato nel gruppo terrorista più temuto nel mondo, non si sarebbe potuta verificare”: questo l’assunto di base di una denuncia depositata da tale Tamara Fields, vedova di un contractor dell’esercito statunitense recentemente ucciso in Giordania. Twitter, in sostanza, avrebbe fornito un supporto materiale al terrorismo, un reato introdotto con il Patriot Act.
Nel testo della denuncia si sostiene che i social media, e in particolare Twitter, contro cui la donna si scaglia, rappresentino un veicolo fondamentale di comunicazione, propaganda e reclutamento per i gruppi terroristici. Supportata dalle recenti prese di posizione di un mondo politico impegnato a mostrarsi attivo di fronte al Terrore, e da una documentazione fatta di account Twitter legati alla propaganda terroristica con i relativi stormi di follower, l’accusa non risparmia di chiamare in causa la piattaforma di microblogging per la sua presunta inazione di fronte all’odio disseminato in formato micropost, odio di cui “è a conoscenza o intenzionalmente sceglie di ignorare”, come dimostrerebbero i 70mila account correlati all’ISIS censiti nel dicembre 2014, 79 dei quali di definivano ufficiali, con i loro 90 tweet al minuto.
Ma si trattava, appunto, del dicembre 2014: prima della strage nella redazione di Charlie Hebdo, prima della serie di attentati che sono tornati a colpire Parigi nel mese di novembre, prima che il mondo occidentale, Europa e USA in prima persona, tornassero a sentire vicina la minaccia del terrorismo. E prima che stato e mercato tornassero a manifestare il proprio zelo nell’imbellettarsi con la causa della sicurezza.
Twitter, da tempo nell’ occhio del ciclone , ha preso posizione e preso provvedimenti: collaborando con le forze dell’ordine, estendendo la definizione delle minacce cinguettate sulla cui base è possibile agire su tweet e utenti, collaborando con governi esigenti nel pretendere operazioni di estromissione di ciò che viene ritenuto pericoloso, cercando di adottare un proprio metro per discriminare ciò che dovrebbe essere oggetto di censura . E operando repulisti ai danni degli account del Terrore, tanto da suscitare gli istinti vendicativi di sedicenti rappresentanti dello Stato Islamico.
È probabilmente per questo che la piattaforma di microblogging non ha esitato a definire le rivendicazioni della vedova Fields “senza fondamento”, ribadendo che “le minacce violente e la promozione del terrorismo non meritano spazio su Twitter e, come per gli altri social media, esistono regole che lo rendono esplicito”. Oltre alle parole e alle intenzioni che la piattaforma di microblogging sventola per mostrarsi allineata ai valori del mondo occidentale, sottolineano gli osservatori basta la legge a supportare la posizione di Twitter: la sezione 230 del Communications Decency Act, che si presta decisamente meno delle prese di posizione di Twitter a scaldare gli animi, stabilisce che l’intermediario, in quanto tale, non è responsabile dei messaggi che gli utenti veicolano attraverso la piattaforma.
Gaia Bottà