La guida autonoma e le tecnologie connesse all’ecosistema self-driving nascono con l’obiettivo dichiarato di dar vita a una nuova forma di mobilità, più sicura poiché non soggetta alla fallibilità del fattore umano. Algoritmi e sensori, a differenza nostra, non sono vulnerabili a distrazioni e stanchezza, né attuano comportamenti irresponsabili. L’idea che tutto possa sempre filare liscio, senza complicazioni o imprevisti, è però utopia. Un bel sogno dal quale ci siamo improvvisamente svegliati nel marzo scorso, quando un veicolo Uber dotato di sensori, videocamere e LiDAR ha travolto e ucciso una donna.
È avvenuto a Tempe, in Arizona, durante uno dei test condotti al fine di raccogliere i feedback necessari al perfezionamento del sistema. La vittima si chiama Elaine Herzberg, 49 anni. A bordo della vettura, invece, Rafaela Vasquez, 44 anni. Da allora l’intera flotta a guida autonoma del gruppo è stata messa in standby, in attesa che le autorità facciano luce sull’esatta dinamica dell’incidente così da attribuire le responsabilità dell’accaduto. Nella giornata di ieri l’iniziativa di Uber è tornata in pista, ma con alcune sostanziali modifiche che possono essere interpretate come una assunzione di consapevolezza, il risultato di una dura lezione impartita da un tragico accadimento a tutti coloro che si erano lasciati andare a facili entusiasmi.
Le self-driving car di Uber sono state riportate sulle strade di Pittsburgh, ma disattivando la tecnologia autonoma e delegando la responsabilità della guida a ben due Mission Specialists, autisti appositamente addestrati per far fronte a situazioni improvvise ed emergenziali. L’intento dichiarato è quello di raccogliere dati da dare poi in pasto a un simulatore e di migliorare la precisione delle mappe. È stato inoltre riabilitato il sistema integrato da Volvo sulle proprie XC90 per la frenata automatica nel caso di rischio collisione. Ancora, il gruppo ha scelto di installare a bordo un dispositivo che monitora costantemente il livello di attenzione di chi si trova al volante: le indagini condotte sull’incidente hanno infatti evidenziato come al momento dell’impatto Rafaela Vasquez stesse guardando uno show in streaming sul proprio smartphone.
Si può dunque parlare di un concorso di colpa e di responsabilità. La vettura non ha accennato a rallentare nonostante le videocamere abbiano inquadrato la donna all’interno della carreggiata con qualche secondo di anticipo. Al tempo stesso l’autista non ha fatto nulla per evitare l’impatto poiché distratta dal proprio compito. L’evento può essere interpretato come un monito, un chiaro segnale che testimonia quanto ancora ci sia da lavorare se il fine ultimo è quello di arrivare un giorno a concretizzare il sogno di una mobilità davvero sicura, per tutti.
Pensare all’avvento della guida autonoma come alla panacea di tutti i mali per il mondo dei trasporti sarebbe in ogni caso un’illusione e porterebbe inevitabilmente a sottovalutare pericoli legati alle imprevedibilità insite in un contesto caotico come quello urbano, dove la gestione di tutti i potenziali fattori di rischio non può essere delegata esclusivamente a sensori o algoritmi. La lezione che si può trarre da una fatalità come quella occorsa a Uber è proprio questa: si tenda alla creazione di un modello perfetto, ma senza perdere contatto con la realtà, non dimenticando come oggigiorno i tempi ancora non siano del tutto maturi per un cambiamento tanto importante, che necessiterà di un’introduzione graduale e accompagnata da un adattamento non solo tecnologico, ma prima di tutto culturale.