Google, in virtù della sua missione di organizzare e rendere disponibile l’informazione ai cittadini della Rete, si configura come un vero e proprio responsabile del trattamento dei dati personali ospitati sulle pagine che contribuisce a rendere rintracciabili: per questo motivo, ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Google è tenuto a ricevere le richieste di rimozione dei cittadini, a valutarle e ad accogliere le richieste di rimozione di certi link dai propri risultati di ricerca nel caso in cui ritenga che il diritto alla privacy debba prevalere sul diritto alla libera circolazione dell’informazione.
Le conclusioni della Corte di Giustizia di Lussemburgo, che attribuiscono ora ai motori di ricerca responsabilità ingombranti, sono state sollecitate a partire da un caso sollevato dal cittadino spagnolo Mario Costeja González: cercando il proprio nome su Google, si era visto chiamato in causa su due pagine di La Vanguardia contenenti due annunci riguardo l’asta di immobili sottoposti, 16 anni prima, ad un pignoramento. González, che non desiderava figurare in prima persona associato all’atto di pignoramento, risalente peraltro a molti anni prima, lamentava la scomodità e l’irrilevanza del proprio nome fra le pagine del quotidiano: rivolgendosi a AEPD, l’authority spagnola che opera a tutela della privacy, ne chiedeva la cancellazione, a mezzo rimozione o modifica delle due pagine , e chiedeva che Google, presso la sua divisione spagnola o a livello globale, agisse per eliminare o occultare i suoi dati personali, in modo che non comparissero più fra i risultati di ricerca .
Se l’authority locale aveva negato al cittadino la possibilità di imporre a La Vaguardia la rimozione dell’annuncio che conteneva il suo nome, considerato di pubblica utilità, aveva accolto il ricorso nei confronti di Google, chiedendo di rendere irraggiungibile il nome del cittadino. Google avrebbe dovuto agire in quanto l’AEPD ha ritenuto che i motori di ricerca “effettuano un trattamento di dati per il quale sono responsabili e agiscono quali intermediari della società dell’informazione”. Google, ricorrendo all’ Audiencia Nacional , ha opposto le proprie istanze: Big G si è sempre ritenuto un mero intermediario che agisce da gatekeeper dell’informazione in maniera automatica e neutrale, e ha da sempre sostenuto che spettasse agli editori il compito di agire sull’informazione da loro prodotta e pubblicata, soppesando i diritti in gioco e tutelando al meglio i cittadini.
La materia del diritto all’oblio, complessa e magmatica, è ancora tutta da definire: basti pensare che di recente l’AEPD è stata bombardata da oltre 220 ricorsi nei confronti di Google, analoghi a quello presentato da González e pendenti di fronte alla Audiencia Nacional . Proprio il tribunale spagnolo aveva così scelto di chiedere lumi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, così da ottenere un parere sull’orientamento da adottare nel risolvere le controversie.
In primo luogo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea era chiamata a stabilire se l’attività di un motore di ricerca, “quale fornitore di contenuti, consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come “trattamento di dati personali””, nel momento in cui faccia venire alla luce informazioni relative a un cittadino pubblicate da terzi . Poco importa che Google abbia dichiarato di elaborare i dati personali ospitati su siti terzi esattamente come elabora gli altri brandelli di informazione, e che non operi alcun controllo su questi dati, poco importa che l’avvocato generale della Corte di Giustizia, lo scorso anno, avesse ritenuto Google un mero intermediario che contribuisce senza filtri né responsabilità editoriale all’esercizio della libera circolazione dell’informazione: la Corte di Giustizia, supportata dagli orientamenti del governo spagnolo, italiano, austriaco e polacco, e di quello della Commissione Europea, ha deliberato che Google, pur operando con obiettivi e modalità diversi da quelli di un editore, si possa ritenere a tutti gli effetti responsabile del trattamento dei dati che macina e offre fra i risultati di ricerca.
La Corte di Giustizia richiama alla memoria la direttiva 95/46/CE sulla protezione dei dati : in essa il trattamento dei dati è definito come “qualsiasi operazione o insieme di operazioni compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, l’elaborazione o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’impiego, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, nonché il congelamento, la cancellazione o la distruzione”. Pur differenziandosi da quello degli editori di siti web, secondo i giudici l’operato di Google aderisce perfettamente alla definizione: “occorre constatare – si legge nella sentenza – che, esplorando Internet in modo automatizzato, costante e sistematico alla ricerca delle informazioni ivi pubblicate, il gestore di un motore di ricerca “raccoglie” dati siffatti, che egli “estrae”, “registra” e “organizza” successivamente nell’ambito dei suoi programmi di indicizzazione, “conserva” nei suoi server e, eventualmente, “comunica” e “mette a disposizione” dei propri utenti sotto forma di elenchi dei risultati delle loro ricerche”.
La Corte di Giustizia sottolinea inoltre che i motori di ricerca svolgono “un ruolo decisivo nella diffusione globale dei dati” e che, proprio per la capacità di organizzare le informazioni intorno a poli di interesse, sanno restituire a chi effettui una ricerca centrata su un nome e cognome “una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su Internet, che consente loro di stabilire un profilo più o meno dettagliato di quest’ultima”. L’attività di un motore di ricerca, proprio per la capacità di “incidere, in modo significativo e in aggiunta all’attività degli editori di siti web, sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali”, secondo i giudici di Lussemburgo deve a maggior ragione sottostare al quadro normativo che regola l’attività di coloro che operano sui dati personali, garantendo al cittadino una piena tutela del suo diritto al rispetto della vita privata.
Non importa dunque che coloro che per primi diano visibilità ai dati personali dei cittadini abbiano la possibilità di rimuoverli e detengano altresì il controllo di strumenti come robots.txt , per impartire ai motori di ricerca istruzioni relative all’indicizzazione delle informazioni: il motore di ricerca è in ogni caso responsabile del trattamento, e come tale deve agire. Inoltre, come nel caso in questione, è possibile che il sito web sia autorizzato ad ospitare i dati personali , ad esempio perché agisce per scopi giornalistici, o perché potrebbe non essere sottoposto al quadro normativo europeo e non essere dunque chiamato a rispondere alla richiesta di rimozione dei dati attinti altrove e reperiti con la facilità con cui l’informazione circola in Rete: gli intermediari dell’informazione come Google appaiono dunque alla Corte di Giustizia come i soggetti più adatti per intervenire a difesa del diritto all’oblio del cittadino.
Certo, ammettono i Giudici di Lussemburgo, è necessario trovare un equilibrio fra i diversi diritti in gioco : “la soppressione di link dall’elenco di risultati potrebbe, a seconda dell’informazione in questione, avere ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di Internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima”. In questo caso ci sarà da entrare nel merito della natura dell’informazione, valutando se si tratti di dati sensibili e quindi particolarmente delicati nel quadro della vita privata del cittadino nominato, se si tratti di informazioni a cui la società civile deve poter avere accesso, anche sulla base del ruolo che l’individuo interessato ricopre nella vita pubblica , se i dati in questione siano stati superati dall’attualità o conservati per troppo tempo . Nel caso specifico, rileva la Corte di Giustizia, i diritti alla vita privata e alla tutela dei propri dati enunciati negli articoli 7 e 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea prevalgono sia sulle attività economiche del gestore del motore di ricerca, sia sull’interesse dei cittadini a rinvenire con i motori di ricerca i dati pubblicati da La Vanguardia rintracciabili con parole chiave che corrispondono all’identità di Mario Costeja González.
Google non può dunque sfuggire a questa rimozione ad personam : in primo luogo, stabiliscono i giudici, perché Google ha una base in Spagna , dunque in uno stato membro UE, e pur trattandosi di una filiale che si occupa solo di promozione e vendita di spazi pubblicitari, contribuisce a “rendere redditizio il servizio” con attività “inscindibilmente connesse” con quelle che competono le operazioni del motore di ricerca. Poiché Google si può ritenere a tutti gli effetti un responsabile del trattamento dei dati personali sottoposto alla disciplina europea, la persona interessata può presentare direttamente a Google le richieste di rimozione : Google ne deve valutare la fondatezza , deve accoglierle nel caso in cui si rivelino ammissibili e assumersi le proprie responsabilità in caso di ricorso presso le autorità di controllo o presso l’autorità giudiziaria da parte del cittadino che si dimostri insoddisfatto.
Se Google era già stato chiamato da diverse autorità giudiziarie europee ad agire nel nome del diritto all’oblio, mai era stata formalizzata in capo ad un motore di ricerca la responsabilità di interfacciarsi direttamente con il cittadino e di valutare le sue richieste . Google, che ha sempre combattuto per non fungere da strumento di censura privata, insieme agli altri intermediari della ricerca online si troverà ora a dover far fronte alle richieste delle migliaia di netizen che, per i motivi più vari e potenzialmente futili, potranno desiderare di vedere scomparire il proprio nome dalle pagine dei risultati. Con quali strumenti gestirà queste richieste? Con quali criteri ne valuterà la liceità, mettendo a confronto il valore di principi come la libera circolazione dell’informazione e il diritto alla privacy?
Quella che per Google rappresenta una “decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale” che potrebbe dare origini ad implicazioni ancora tutte da analizzare, è invece una sentenza che suscita il plauso del Commissario europeo per la Giustizia Vivane Reding: nonostante attivisti che da tempo lottano per la tutela dei diritti dei netizen abbiano sollevato dubbi riguardo al bilanciamento dei diritti operato dalla sentenza, potenzialmente lesivo della libertà di espressione e di circolazione dell’informazione, Reding la accoglie come una “netta vittoria per la protezione dei dati personali dei cittadini europei” e come il primo passo per sospingere l’Europa dall'”età della pietra digitale” verso la modernità. A completare il quadro, e magari ad offrire agli intermediari della Rete un appiglio per gestire le responsabilità che sono state attribuite loro, potrebbe intervenire il Regolamento Europeo presentato nel 2012 e da sempre sostenuto da Reding come uno strumento per “assicurarsi che coloro che fanno affari in Europa rispettino le leggi europee e garantiscano ai cittadini la possibilità di agire per gestire i propri dati”.
Gaia Bottà