Nel duro dibattito sul brevetto unico europeo si inserisce anche il Belgio: la sua Corte Costituzionale è stata chiamata a decidere se la riforma sappia garantire il rispetto della Costituzione locale .
Il sistema unificato dei brevetti europeo è stato approvato nel 2012 dal Parlamento europeo. Ma prima e dopo quella data è stato accompagnato da critiche e polemiche da alcuni stati membri contrari ad un’armonizzazione forzata che temono possa danneggiare i propri inventori ed i propri esperti in materia.
Il cosiddetto “pacchetto del brevetto europeo” è costituito da due regolamenti e una convenzione internazionale votati con tre separate sessioni: i primi due elementi istituiscono rispettivamente lo strumento del brevetto europeo e il regime linguistico da adottare, il terzo stabilisce un sistema giuridico unico , la Corte brevettuale unica ( Unified Patent Court , UPC), che avrà competenza esclusiva sulla validità e la violazione del brevetto unitario europeo.
A far ricorso contro la riforma, da ultimo, è stata la European Software Market Association ( ESOMA ), associazione che punta a rappresentare gli operatori indipendenti ed i consumatori del settore IT europeo: secondo quanto si legge nelle sue accuse, il Brevetto unico europeo violerebbe la legge fondamentale belga in quanto creerebbe discriminazioni in base alla lingua, violerebbe il principio della separazione dei poteri e rappresenterebbe una sorta di colpo di mano frutto di una manovra politica illegale dello European Patent Office (EPO) che aprirebbe tra l’altro la strada ai patent troll attraverso l’introduzione dei brevetti software .
Come già contestato da diversi paesi come Spagna ed Italia, il problema principale è quello legato alle lingue ufficiali del sistema brevettuale europeo: per i procedimenti e le registrazioni ufficiali bisogna utilizzare l’inglese, il tedesco o il francese. Una decisione che serve certamente a limitare i costi ed a garantire una vera e propria uniformità (che un sistema con oltre 20 lingue non avrebbe potuto garantire), ma che fa temere ai paesi che non le hanno come lingue ufficiali di finire per essere svantaggiati. Oltretutto in un campo, quello dei brevetti, in cui la semantica è fondamentale (la scelta di una parola determina la portata della protezione di un brevetto) ed in un settore, quello dell’innovazione, in cui la velocità e la prontezza di reazione sono certamente fondamentali, soprattutto rispetto alla veloce evoluzione tecnologica.
Per le stesse motivazioni la prima a far ricorso era stata la Spagna, protagonista della Causa C-147/13 con cui ha chiesto alle istituzioni europee l’annullamento del Regolamento UE n. 1260/2012, quello relativo, appunto, alla lingua del nuovo sistema: nei mesi scorsi l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia europea Yves Bot si era espresso sulla questione, rigettando il ricorso in quanto ha valutato come superiori ai possibili problemi (riconosce in questo senso la discriminazione rispetto alle lingue ufficiali) i benefici portati dalla creazione di una tutela brevettuale unitaria a livello UE, soprattutto in termini di integrazione ed uniformità, ma anche in termini di costi. Per questo la scelta linguistica perseguirebbe un obiettivo legittimo, e sarebbe adeguata e proporzionata. Oltretutto, le eventuali discriminazioni almeno in ottica di deposito dei titoli brevettuali saranno ampiamente limate dalla prossima introduzione di un regime di compensazione diretto a rimborsare i costi della traduzione e di un sistema di traduzione automatico di alta qualità .
Inoltre, secondo Bot il principio europeo di leale cooperazione esige che gli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata adottino tutte le misure che consentono la sua attuazione.
Bisogna ricordare che le conclusioni dell’avvocato generale non vincolano la Corte di Giustizia, tuttavia segna indubbiamente un punto contro la posizione spagnola.
L’altro problema, secondo ESOMA, è quello legato all’estensione della materia brevettabile su cui spinge l’EPO: a non piacere sono le aperture nei confronti dei brevetti software, che diventerebbero un’arma temibile in mano ai cosiddetti patent troll che intendano minacciare le aziende software legittime.
Claudio Tamburrino