Londra – Cresce il consenso politico per l’ impianto obbligatorio di chip sottopelle nelle braccia dei detenuti su suolo britannico. Ne dà notizia The Independent on Sunday che in un reportage racconta il crescente interesse dell’Esecutivo per quella che viene definita una “soluzione ottimale”.
Archiviato il braccialetto elettronico, ritenuto poco efficace, il modo migliore per mantenere l’ordine all’interno degli istituti di pena parrebbe proprio un chip RFID permanente e leggibile attraverso appositi lettori mobili o installazioni fisse all’interno del carcere. Utile per aggiornare con un gesto i database sui movimenti tra carceri dei diversi detenuti, magari collegati a determinate bande criminali, oppure per verificare il rispetto delle condizioni di pena, per gestire gli orari del coprifuoco, dei tempi di utilizzo dei diversi servizi in carcere e via dicendo.
Stando al giornale, ci sono ministri del Governo che accarezzano l’idea di installare il chip nel più alto numero possibile di umani sottoposti a pena detentiva, o comunque a disposizioni coercitive perché riconosciuti colpevoli dei più diversi reati. Ciò darebbe anche vita ad un forte risparmio in termini di tempi e costi della gestione carceraria oltreché, ma questo appare già meno comprensibile ai sostenitori dei diritti dell’individuo, un impulso alla sicurezza degli istituti .
Come in Italia, anche nel Regno Unito uno dei problemi più grossi nelle carceri è la sovrappopolazione : solo pochi giorni fa sono stati posti in semilibertà 14mila detenuti a causa del sovraffollamento. E il chip RFID aiuterebbe anche in questo, consentendo una ottimizzazione delle risorse di sorveglianza e di controllo nonché una migliore gestione dell’andirivieni dei detenuti nelle varie aree del carcere. A questo si associa la costruzione di tre nuove “supercarceri” che nei progetti del Governo dovrebbero vedere la luce entro i prossimi sei anni e garantire l’ ospitalità in “condizioni ideali” per 20mila detenuti.
Se i chip RFID attuali possono essere “letti” a brevi distanze, il futuro secondo fonti del ministero dell’Interno potrebbe vedere l’impianto di chip di nuova generazione, capaci ad esempio di funzionare come chip di localizzazione sul territorio . “Tutte le opzioni sono sul tavolo – ha spiegato un incaricato dell’esecutivo – e questa è una cosa che vorremmo adottare. Sono anni che vogliamo utilizzare questi sistemi perché sembrano offrire una soluzione ragionevole ai problemi che dobbiamo fronteggiare in questo settore. L’abbiamo esaminata e ci siamo tornati sopra, preoccupati anche degli aspetti etici e pratici della vicenda: quando si guardano le sfide che il sistema della giustizia deve affrontare ti rendi però conto che il momento giusto è arrivato”.
A sostenere la posizione politica dell’Esecutivo è la cancellazione del grande progetto di tracking satellitare che era stato avviato negli anni scorsi per tenere traccia di un più alto numero di persone in semilibertà attraverso il braccialetto elettronico: una cancellazione che si deve sia alla frequenza con cui il segnale viene interrotto da ostacoli fisici, sia dal fatto che almeno 2mila persone sarebbero riuscite ad eludere il monitoraggio smanettando sul braccialetto o addirittura rimuovendolo.
Il chippetto a cui pensa l’ Home Office è un dispositivo che i lettori di Punto Informatico già conoscono: si tratta di una variante del VeriChip , una capsula che contiene un microcircuito, un’antennina di rame e un condensatore. Questo tipo di chip, come noto, è all’attenzione di molti paesi: negli Stati Uniti è stato dato il via libera per il suo utilizzo in ambito medico ma in stati come la California è stata vietata per legge qualsiasi procedura obbligatoria di impianto .
Ed è proprio su questo aspetto della vicenda che si concentrano le critiche dei sostenitori dei diritti umani riportate dall’ Independent . Shami Chakrabarti, applaudita direttrice dell’organizzazione Liberty , non usa mezzi termini: “Se il ministero dell’Interno non capisce perché impiantare un chip in qualcuno è peggio che dotarlo di un braccialetto elettronico, allora non ha bisogno di un avvocato esperto di diritti umani, ha bisogno di una iniezione di buon senso. Degradare i condannati in questo modo nulla farà per la loro riabilitazione e nulla per la nostra sicurezza, dato che qualcuno troverà inevitabilmente un modo per aggirare questa nuova tecnologia”. Un’affermazione che, alla luce di quanto accaduto nei mesi scorsi, appare tutt’altro che peregrina .
Sulla stessa linea d’onda anche Harry Fletcher, segretario generale della National Association of Probation Officers , secondo cui “questo è quel tipo di idea che di quando in quando arriva dal Ministero, ma chippare le persone come facciamo con gli animali domestici non può essere la via. Trattare le persone come buste di carne non mi sembra che rappresenti un miglioramento del sistema”.