Londra – Ragazzini che si azzuffano per strada, che oltraggiano le forze dell’ordine. C’è chi si scaglia contro coetanei, chi preferisce saltare sul cofano della macchina della polizia, ed infrangerne il parabrezza. Immagini che si riversano sulle piattaforme di video sharing, media che per primi sono stati capaci di conferire visibilità globale anche a questi gesti, media bersagliati da istituzioni italiane ed estere e ora condannati dalla polizia del Regno Unito.
Il caso del momento è stato scatenato da un programma BBC , che nella puntata di questa settimana ha battuto i portali di video sharing per denunciare la dilagante presenza di clip che mostrano violenze fra adolescenti, catturate dai telefonini dei presenti. Se BBC si limita ad esprimersi in toni indignati, sono le forze di polizia ad accodarsi alle recenti proposte del ministro all’Educazione Johnson, sostenendo la responsabilità dei servizi di condivisione video sui contenuti pubblicati dai netizen .
“Sono responsabili per il contenuto dei prodotti che offrono, ne traggono profitto”, questa l’opinione di Brian Moore, dell’ Association of Chief Police Officers . Un controllo editoriale invocato per garantire una Rete più sicura, che non offra ai ragazzi dei modelli poco virtuosi da imitare e con i quali confrontarsi. Un controllo da operare dall’alto per facilitare il lavoro delle forze dell’ordine , che non intendono servirsi della collaborazione degli utenti delle social network, ma vorrebbero che fossero i responsabili delle piattaforme di sharing a segnalare preventivamente e ufficialmente eventuali contenuti che costituiscano prova di un reato.
Il controllo editoriale invocato da Moore si basa sul confronto tra i bilanci della polizia, costretta a razionalizzare le spese, e quelli degli opulenti colossi dell’online che, foraggiati dagli inserzionisti, traggono profitto dall’operato offerto gratuitamente dai netizen . Le forze dell’ordine, insomma, ritengono che non spetti loro il compito di impiegare personale per operare controlli, ma spetti alle aziende che fanno dei contenuti condivisi dagli utenti un redditizio modello di business, senza offrire garanzia alcuna al pubblico. E senza offrire garanzia alcuna agli inserzionisti come Pepsi o eBay, che, racconta Times Online , iniziano a manifestare disappunto e a chiedere la rimozione dei propri annunci affiancati a contenuti violenti o politicamente scorretti, contenuti che nessuna azienda vorrebbe che i consumatori associassero al loro brand.
La stessa BBC ha raccolto la risposta di YouTube, che, senza discostarsi dalle linee guida che regolano i rapporti con gli utenti, afferma che il controllo è affidato alla community, riservandosi di rimuovere i video segnalati solo a posteriori , in quanto il controllo preventivo è ritenuto una forma di censura. A differenza di Liveleak, piattaforma che sottopone a controllo editoriale i contenuti e tende a pubblicare anche quelli più violenti in quanto documenti di “vita vera”, YouTube ripudia ogni forma di contenuto che possa offendere o arrecare danni alle persone, e affida alla comunità il compito di vigilare sulla comunità stessa.
Una comunità di utenti che, chiosa il portavoce di YouTube, “solo in minima parte cerca di violare le regole”, che solo in parte è composta da adolescenti che, sostengono i pediatri, supportano i coetanei e le loro più violente ed eccessive spavalderie.
Il resto degli utenti appare abbastanza responsabile nel controllo dei propri pari, un principio sul quale si fonda la collaborazione in Rete, ma che non accontenta il personale docente di una scuola nei pressi di Portsmouth, nella quale si sono verificati episodi di bullismo filmato. “YouTube è completamente privo di regole” ha dichiarato un docente al Telegraph . “Senza registrazione è possibile accedere al video, ma non al pulsante per segnalarne l’inappropriatezza”: un ostacolo che ha spinto il personale scolastico a rivolgersi alla polizia per richiedere la rimozione, che, vista la natura della clip, YouTube avrebbe probabilmente effettuato anche in seguito ad una segnalazione ordinaria.
Gaia Bottà