Ti senti dipendente dai social network?
Risposta: si, almeno uno su due.
Questa la risultante di un sondaggio portato avanti da un team della University of Cambridge su un panel di 19 mila “millennial” nati tra il 2000 e il 2002 nel Regno Unito. Secondo quanto emerso, a sentirsi “addicted” sono soprattutto le ragazze (57%), mentre il sesso maschile è leggermente al di sotto della media: complessivamente, il 48% dei rispondenti si è detto dipendente, ammettendo così una sorta di disagio che chiede attenzione.
Una premessa necessaria: i dati vanno riportati così come comunicati, fermo restando il fatto che la domanda si apre a mille interpretazioni e potrebbe portare ad altrettante conseguenze.
Social network addicted
L’obiettivo era quello di comprendere se i teenager si sentano in qualche modo “addicted” dai social media, sentendosene imprigionati per una qualche dinamica che ne vincola all’utilizzo. La domanda sembra di per sé escludere il semplice piacere dell’utilizzo del network: l’obiettivo era quello di far emergere dinamiche viziose, tali da legare i ragazzi occupando il loro tempo anche oltre tutto quel che è il semplice utile e dilettevole. Da più parti, infatti, si sta cercando di approfondire questa dinamica per approdare a controlli e normative che possano essere più precisi rispetto a quanto non si è fatto finora. Facebook è nato nel 2004, Instagram nel 2010: l’esperienza è matura, la casistica è abbondante, ma i numeri saranno fondamentali per oggettivizzare quel che altrimenti rischia di restare una pericolosa evidenza soggettiva.
Il sospetto che si pone, infatti, è che sia soprattutto la dinamica dello scroll a rivelarsi deleteria. Pagine con scroll senza fine, infatti, operano su un meccanismo impulsivo di scoperta del contenuto successivo, ma si trasformano in una sorta di dopamina artificiale che scatena l’istinto allo scorrimento, genera insoddisfazione e di qui allo scroll successivo in cerca di nuovi ed ulteriori stimoli. Quello che è un virtuosismo in ottica di performance, al tempo stesso si identifica come un immenso quantitativo di minuti persi da parte di una generazione: può una visione politica efficace ignorare siffatta distorsione?
I ricercatori mettono le mani avanti: sentirsi “dipendenti” non significa esserlo realmente e, soprattutto, non significa esserlo allo stesso modo di droghe o altri prodotti sintetici che possono scatenare chimicamente una reazione incontrollabile. La ricerca fa emergere però un aspetto collaterale: non tanto la dipendenza in sé, quanto la percezione della stessa. Un adolescente che ammette di sentire un qualche peso derivante dall’opera dei social network (sia esso causato da scroll compulsivi, necessità di affermazioni sociali, dinamiche di comunità o altro ancora) impone riflessioni approfondite, le quali debbono giocoforza dall’identificazione precisa del problema per poi immaginare un qualche tipo di soluzione.
Secondo The Guardian, il problema non è tuttavia legato esclusivamente ai social network. Dietro l’acronimo di “PIMU” (Problematic Interactive Media Use) il Digital Wellness Lab dell’ospedale per l’infanzia di Boston ha esteso il perimetro del disagio anche a gaming e pornografia, includendo quindi i social network in un contesto nel quale a diventare compulsivo è l’accesso a piccole entità informative (video, testi, immagini). Il problema non è insito nei social network di per sé stessi, ma nel meccanismo con cui atomizzano l’informazione e la restituiscono frammentata – aspetto che ha peraltro probabili conseguenze nella capacità di attenzione e apprendimento nei più giovani.
Un tema complesso, insomma, che merita necessari approfondimenti. E necessiterà in particolare di indagini più approfondite su una fascia di età del tutto delicata, poiché fondamentale per affrontare la sfida dell’IA che si appresta a diventare centrale in futuro.
Ciò che trovo interessante è che algoritmi progettati per aumentare le vendite tendano ad essere particolarmente nocivi e tendano inoltre a sviluppare prodotti che mettono in pericolo le persone vulnerabili. Dobbiamo spingere per una maggior trasparenza degli algoritmi.
Perché a questo si torna, in fin dei conti: trasparenza come tutela, come diritto, come principio.