Una Storia dei computer giapponesi (1956-1997)

Una Storia dei computer giapponesi (1956-1997)

di Fabrizio Bartoloni - Il Giappone ha corso velocissimo verso l'informatica moderna e ne è stato il traino sotto molti aspetti. Ecco come, e con quali sistemi, quella corsa è divenuta globale
di Fabrizio Bartoloni - Il Giappone ha corso velocissimo verso l'informatica moderna e ne è stato il traino sotto molti aspetti. Ecco come, e con quali sistemi, quella corsa è divenuta globale

Se in Occidente il computer si era nutrito di investimenti militari per il suo insostituibile ausilio nel decriptare i messaggi cifrati nazisti, a Tokyo e dintorni la sua adozione era spinta dalla crescente richiesta di potenza di calcolo delle industrie del Sol Levante. Fu proprio il Dr. Okazaki della Fuji a creare in solitario nel 1956 FUJIC (vedi sotto a lato), il primo elaboratore elettronico made in Japan, perché operasse rapidamente i calcoli necessari al design delle lenti per la stessa azienda. Seguì l’anno successivo il MUSASINO-1 della compagnia telefonica NTT (cliente principale del primo ventennio di informatica giapponese) sotto la guida di Muroga Saburo , cui va ascritto il merito di aver insegnato ai suoi connazionali tutto quel che ci fosse da sapere allora sull’argomento attraverso un mare di articoli, conferenze, manuali e corsi.

l'elaboratore nipponico Saburo non si limitò a spiegare in patria quanto appreso negli USA, ma risolse annosi problemi di ottimizzazione dei circuiti (il cosidetto “parametron”, architettura d’elezione degli apparati nipponici nel lustro a venire) e qualora non fosse migrato negli Stati Uniti nel ’60 il suo impatto sull’IT dell’arcipelago sarebbe stato ancora maggiore.

Negli anni Sessanta l’escalation alla miniaturizzazione correva parallela a quella occidentale quando non superandola (vedasi il più rapido passaggio ai transistor), meritano però di sfuggire all’oblio MARS-1, il sistema di prenotazione dei biglietti ferroviari del tutto informatizzato che aprì il decennio nella stazione di Tokyo ad opera della Hitachi, e due primi timidi approcci alla traduzione automatica da e verso l’inglese andati sotto i nomi di Yamato e KT1.

I player del mercato di quel periodo, ormai fra i clienti figuravano anche aziende medio-piccole, sono nomi familiari ancora oggi: Fujitsu, Toshiba, Mitsubishi, OKI e NEC col contributo di accademie e agenzie governative. Tra loro NEC, Hitachi e Fujitsu si consorziano, e in uno sforzo congiunto rilasciano il DIPS-1 nel 1973, un “mostro” con quattro processori e una memoria principale di 16MB. Volevano qualcosa capace di tener testa ai calcolatori stranieri nel rapporto prestazioni-prezzo, e in questo esperimento pongono alcune pietre miliari in prospettiva futura: specifiche comuni per le periferiche esterne ai fini della compatibilità tra quelle fornite da produttori diversi, architettura standard sino a livello di linguaggio macchina, e possibilità ad ognuno dei tre costruttori di realizzare e distribuire il modello a prescindere dagli altri due.

Secondo il libro Japan’s Computer and Communications Industry , a spingere in tal senso era il Ministero del Commercio Internazionale e dell’Industria, non nuovo a forme di protezionismo nella guerra dell’export con gli States, il quale vedeva nello strapotere di IBM contrapposto alla frazionata realtà locale la causa del predominio tecnologico americano.

In contemporanea esordiscono alle fiere di settore gli “wapuro”, fenomeno autoctono il cui nome deriva da “word processor”, motivati dall’intrinseca incompatibilità del complesso sistema di scrittura indigeno verso tecniche di stampa di origine occidentale pensate per un numero limitato di lettere e caratteri. Era uso tra i bambini guadagnarsi qualche yen nelle copisterie rovistando alla ricerca dell’ideogramma giusto dentro ceste colme di matrici tipografiche in piombo e persino le macchine da scrivere domestiche impressionavano , quindi non stupisca che per le necessità di videoscrittura nascessero macchine dedicate con adeguata risoluzione e memoria in grado di convertire la trascrizione fonetica nell’ideogramma desiderato (la grande limitazione dei dispositivi meccanici sino ad allora).

A partire dalla metà dei ’70 entra nel lessico della stampa specializzata l’espressione “8 Bit Gosanke”, a designare l’avvicendarsi al comando di un “terzetto di case madri” (“Gosanke”, appunto) in cicli triennali o poco più. Tra il ’76 e il ’78 dominano implementazioni single board, quali in Europa erano Electron e BBC Micro della Acorn, capitanati dal TK-80 della NEC, l’H68/TR della Hitachi e lo LKit-16 della PFU, rivolti ai tecnici goderono un considerevole riscontro tra gli hobbisti.

l'MZ - da old-computer.com Nel lasso ’79-’82 subentrano i capostipiti delle serie PC-8000 , PC-6000 e PC-6600 della NEC, la serie MZ della Sharp e quella BasicMaster della Hitachi (parecchio simile al TRS-80 della Tandy, stessa CPU e ci poteva girare OS9); questi segnano la transizione all’home computer, vengono venduti preassemblati e sono rivolti ad una utenza domestica. La Sharp potremmo definirla la Commodore d’Asia, gli MZ (vedi qui a lato) mostravano varie analogie coi PET per la struttura monoblocco integrante plotter, tastiera, lettore nastri e quant’altro, paragone rafforzato poi dagli Sharp 68000/68030 dall’hardware così simile ad Amiga.

Tra l’83 e l’88 la NEC coi suoi PC-98 rafforza il dominio sino al picco di market-share del 60% e fa migrare i propri modelli dall’8086 ai NEC V20/V30 (stesso set di istruzioni).

Sempre il 1983 vede l’annuncio dell’MSX, una piattaforma di riferimento ideata dall’allora dirigente alla Microsoft Japan, Kazuhiko Nishi, basata su Z80 con chip grafico della Texas Instruments e quello sonoro della General Instruments. Come già successo per il DIPS-1, ma stavolta per un home computer, ogni associato poteva costruire un “clone” purché rispettasse le specifiche di base e rilasciarlo col logo MSX, il successo interno fu buono ma non quanto sperato. La Fujitsu intanto giocava un po’ il ruolo del C64, fatte le debite proporzioni, cogli FM-7/FM-8 , date le loro eccellenti capacità video e audio nel settore amatoriale, mentre la Sharp con gli X1 introduceva un primitivo genlock per aggiungere computergrafica in sovraimpressione al segnale video televisivo.

La preponderanza di tali aziende nel mercato interno era un gigante dai piedi d’argilla. Proprio quando i bellissimi Sharp X68K e FM-Towns facevano sfigurare i rispettivi contraltari Amiga e PC in potenza bruta, eleganza del design e qualità del software ludico ecco l’evento destinato a sovvertire l’indipendenza nipponica in tale campo. Mi riferisco al supporto della lingua giapponese introdotto prima nei Mac (dove brilla in facilità di input e ricchezza dei font in dotazione tanto da valergli un successo inusitato) dalla Apple e poi nei PC dalla IBM col suo DOS/V nel ’90, permettendo così di usare anche software straniero, impossibile coi PC-98, conducendoli pertanto sulla china del tramonto anche se il colpo di grazia giunse da Windows 95, cui la NEC non aveva un OS con GUI all’altezza da contrapporre.

Sebbene questo non significasse il termine della supremazia hardware dei giapponesi a casa loro, infatti i PC compatibili di Toshiba e Fujitsu occuparono il terreno lasciato vuoto, poneva comunque fine alle soluzioni proprietarie allineando il paese alle scelte mainstream del resto del pianeta con gli ubiqui Windows e Mac. Nel frattempo su un’altra piattaforma tecnologica si stavano di nuovo distinguendo da Europa e America: il cellulare.

Fabrizio Bartoloni

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Pubblicato il
16 gen 2009
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